Queste sono tre pagine dell’Introduzione di un mio vecchio libro ora liberamente scaricabile in pdf, La politica dell’esclusione. Riforma municipale e declino della partecipazione elettorale negli Stati Uniti del primo Novecento (Il Mulino 1994). Continua a leggere qui l’intero testo.
La scarsa affluenza alle urne non è un carattere originario del sistema politico degli Stati Uniti, ma il prodotto di trasformazioni storiche. La questione riassunta nella domanda «Perché gli americani non votano?» presenta alcuni aspetti paradossali, sia rispetto alla storia del paese che agli sviluppi comparati della democrazia elettorale sulle due sponde dell’Atlantico. Nel secolo scorso, gli Stati Uniti furono il primo regime democratico di massa a presentarsi sulla scena dell’Occidente contemporaneo con continuità e stabilità. Almeno dagli anni Trenta dell’Ottocento in poi, il suffragio maschile bianco senza restrizioni di censo e tassi molto elevati di partecipazione elettorale erano saldamente insediati a fondamento delle istituzioni rappresentative. L’estensione in molti stati del diritto di voto agli stranieri che avessero iniziato le pratiche di naturalizzazione e, dopo la guerra civile, l’emancipazione degli ex-schiavi neri del Sud e la loro straordinaria mobilitazione, sembrarono portare a compimento una democrazia radicale che trovava il proprio limite nella barriera di genere. Il libero esercizio del voto da parte di tutti i maschi adulti era percepito non solo come un diritto ma anche come un dovere; un dovere che non era imposto da nessuna legge, da nessuna costituzione, ma che era radicato nella cultura politica e sociale. La cittadinanza politica egualitaria era una componente essenziale della vita pubblica dello stato-nazione in formazione, della sua identità nazionale e della narrazione delle ragioni metastoriche della sua esistenza, della sua «eccezionalità». Era quindi celebrata con orgoglio e additata come esempio e meta possibile ai fratelli travagliati del Vecchio Mondo: una «lezione» di democrazia popolare che, come scrisse Walt Whitman nel 1871, «noi inviamo alle terre europee con ogni brezza occidentale».
Nel Novecento, le brezze oceaniche si sono fatte più incerte e volubili e, almeno per ciò che riguarda la partecipazione elettorale sul lungo periodo, hanno cambiato direzione. In questo secolo, come ha scritto alcuni anni fa lo scienziato politico Walter Dean Burnham, nei paesi che conducono libere elezioni la tendenza è stata «verso l’incorporamento pressoché totale del pubblico di massa nel sistema politico». Dovunque, tranne che negli Stati Uniti dove, al contrario, la tendenza è stata «verso una limitazione funzionale del diritto elettorale, soprattutto per le classi inferiori». La svolta, come è evidente dalla figura 1 e dalla figura 2, avvenne intorno al 1900. Fu allora che nell’elettorato americano cominciò a delinearsi un processo di demobilitazione. La curva dell’affluenza alle urne precipitò a livelli molto bassi negli anni Venti (48,9 per cento nel 1924) e negli anni Quaranta (53,4 per cento nel 1948), lievitò moderatamente durante il New Deal e negli anni Cinquanta-Sessanta, per poi scendere di nuovo verso i minimi attuali. Mai, comunque, l’universo elettorale recuperò le dimensioni che aveva nell’Ottocento. Alla vigilia delle elezioni presidenziali del novembre 1988 gli editorialisti del «New York Times», prevedendo che metà della popolazione in età di voto non avrebbe esercitato il proprio diritto, parlarono con durezza di una «mezza democrazia». Il lieve incremento registrato alle elezioni del 1992 non ha mutato il quadro complessivo; le analisi comparate sottolineano come gli Stati Uniti occupino oggi, da questo punto di vista, il penultimo posto nelle graduatorie internazionali delle democrazie elettorali, superati in negativo solo dalla Svizzera. Il paradigma transatlantico ottocentesco si è insomma completamente rovesciato; nell’epoca del trionfo dell’ideologia dell’eccezionalismo americano, è un elettorato demobilitato a costituire una peculiarità del paese del Nuovo Mondo.
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La partecipazione elettorale si va lentamente erodendo anche nel nostro paese, che pure era solito produrre (e continua a farlo) tassi di affluenza fra i più alti d’Europa. Nel travagli del nostro sistema politico, che sembra preludere a un vero e proprio cambiamento di regime, il significato di questo crescente «partito del non voto» non è chiaro. E’ il segno dell’allontanamento dei cittadini dal presente sistema in crisi, oppure è una caratteristica anticipata del sistema prossimo venturo? Riuscirà la diffusa partecipazione politica popolare a sopravvivere al decadimento dei partiti organizzati di massa? La «seconda repubblica» evocata e invocata da più parti sarà basata su un elettorato ridotto e socialmente stratificato, con settori della popolazione virtualmente espulsi dal mercato elettorale e dalla rappresentanza politica? E’ anche con queste domande «italiane» in mente che è stato iniziato (ormai parecchi anni fa) e condotto questo studio sulle origini della crisi di partecipazione negli Stati Uniti. Ed è forse inevitabile che le risposte del cittadino a queste domande (che sono diventate, in verità, sempre più pessimistiche e preoccupate) possano aver influenzato le strategie di ricerca adottate dallo storico. Non si tratta, fra l’altro, di un problema esclusivamente italiano. La mobilitazione elettorale è in declino in altri paesi del nostro continente, e si cominciano a formulare domande dal chiaro sapore americano su «la scomparsa degli elettori» in Europa occidentale. E’ possibile, insomma, che in questa fine di secolo si verifichi una ulteriore inversione di tendenza nel paradigma transatlantico, in questo caso nella direzione di una omologazione dei comportamenti, e quindi dei problemi che i sistemi democratici in Europa e negli Stati Uniti devono affrontare.
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