La paralisi del governo degli Stati uniti, che ha portato allo shutdown dell’intero apparato federale, ha radici profonde, built-in nella stessa Costituzione del paese. La quale Costituzione, d’altra parte, potrebbe ben dire, come il procace cartoon di Jessica Rabbit nel film Who Framed Roger Rabbit, “Non è colpa mia, è che mi hanno disegnato così”. Due aspetti dell’architettura costituzionale sono particolarmente rilevanti. Uno è strutturale, esplicito e molto evidente, e la sua parola chiave è separazione dei poteri. L’altro è derivato e un po’ nascosto, con conseguenze più contingenti. La sua parola chiave è redistricting, e riguarda il meccanismo con cui vengono definiti, e ri-definiti ogni dieci anni, i collegi territoriali uninominali in cui sono eletti i membri della Camera dei rappresentanti. (Questo post riprende da un altro punto di vista la storia di un post precedente, intitolato “La paralisi del governo federale e i vincoli della questione razziale”)
L’aspetto strutturale e molto evidente si ricava subito dal manuale del piccolo costituzionalista. La macchina immaginata da James Madison nel 1787 si basa sul timore dell’autorità politica concentrata – sia in un singolo “tiranno” esecutivo che nella majority rule legislativa, il governo della maggioranza senza contrappesi. Quindi prevede, come principio fondante, una radicale separazione dei poteri. Il potere esecutivo, cioè il Presidente, e il potere legislativo, cioè il Congresso, o meglio ancora i due rami del Congresso, hanno fonti di legittimazione del tutto indipendenti. Nella versione democratizzata di oggi, i tre organi sono eletti da constituencies popolari diverse: il Presidente dalla complessa procedura indiretta che non sto a riassumere qui; i senatori da collegi unici statali; i membri della Camera dei rappresentanti da collegi più piccoli ritagliati dentro gli Stati. I tre organi sono eletti anche in tempi diversi, con scadenze diverse: ogni quattro anni il Presidente, ogni due tutti i rappresentanti, ogni sei i senatori (ma un terzo di loro è rinnovato ogni due anni). E quindi: Presidente, senatori e deputati possono dire di esprimere tutti la sovranità popolare ma, per così dire, di tre popoli distinti – ciascuno organizzato a suo modo, e non nel medesimo momento “storico”.
Se il risultato di questo gioco di complicati incastri non è politicamente omogeneo, se accade che i due partiti si dividano il controllo degli organi di governo, c’è il divided government, un fatto ricorrente nella storia del paese. Di solito risolto con il compromesso fra le parti, lento, faticoso, concordato su ogni singola misura, ma comunque dinamico. Se i due partiti sono ideologicamente polarizzati e hanno agende inconciliabili, c’è invece il gridlock – il blocco del sistema. E’ quello che succede oggi: i repubblicani, conservatori e con una influente minoranza di destra, vicina al movimento del Tea Party, hanno la maggioranza alla Camera; i democratici, con le loro vocazioni liberal, al Senato. E democratico è un Presidente odiatissimo dai conservatori. In questo caso ogni accordo sembra impossibile, è considerato tradimento, fino a colpire una questione vitale come la legge finanziaria – tenuta in ostaggio dall’ostilità repubblicana a una riforma sanitaria che democratici e Presidente sono decisi a difendere. E qui c’è il dramma dispiegato in pubblico. Perché, senza un compromesso politico, la crisi può concludersi solo con la resa di una delle parti. Non c’è un arbitro che sciolga il nodo, non ci sono, come nei sistemi parlamentari, mozioni di sfiducia, dimissioni di governi, ricorsi a elezioni anticipate. Insomma: non esiste una soluzione costituzionale alla crisi. E’ la Costituzione, bellezza.
L’aspetto meno evidente della Costituzione che ha favorito la formazione di una Camera dei rappresentanti così dura, riguarda invece un dettaglio – ma, si sa, nei dettagli si nasconde il diavolo. Il sacro testo stabilisce che i membri della Camera siano distribuiti fra gli Stati in proporzione ai loro abitanti, e che il numero sia ricalcolato ogni dieci anni dopo un censimento nazionale che misuri gli spostamenti di popolazione. Ma non precisa chi abbia l’autorità di definire i collegi o distretti elettorali in cui quei membri sono eletti. In nome del federalismo (in effetti anch’esso un principio costituzionale fondante), ha lasciato il compito agli Stati, oggi condizionati da alcune indicazioni federali molto generali. Lasciare il compito agli Stati vuol dire lasciarlo alle loro assemblee legislative, e quindi al partito che le controlla. I partiti al potere hanno spesso manipolato i confini dei distretti con grande fantasia, dividendo o accorpando porzioni di territorio sulla base delle note simpatie politiche dei residenti, in modo da trarne il massimo vantaggio elettorale. La fantasia sublime si ebbe all’inizio dell’Ottocento quando un signor Gerry inventò un distretto così strano da assomigliare a un drago mitologico, una salamandra: da cui il nome del fenomeno, gerrymandering. Il nome tecnico è districting, e redistricting quello che si fa ogni dieci anni, quando la festa si ripete.
Dopo il censimento del 2000, ma specialmente dopo quello del 2010, a profittare di questo marchingegno sono stati i repubblicani. Negli Stati in cui hanno il controllo delle assemblee legislative (e ce l’hanno totale in metà degli Stati, 25, e in una sola camera in altri 8), hanno creato collegi sicuri per i loro candidati, ritagliandoli affinché il grosso degli elettori fosse strutturalmente a loro favore. Soprattutto concentrando grandi numeri di bianchi conservatori: il tipico collegio repubblicano è ora per il 75% bianco, mentre quello democratico lo è per il 51%. Ciò pone al partito un problema di lungo periodo, perché sta perdendo il contatto con le trasformazioni demografiche del paese, sempre più ispanico e di colore. Ma nell’immediato l’impatto di queste operazioni è stato micidiale. Grazie a esse, alle elezioni per la Camera del 2012 i repubblicani hanno mantenuto la maggioranza dei seggi, benché gli americani abbiano votato in maggioranza per i democratici (52% contro 48%). Grazie a esse, i deputati repubblicani vengono in genere da distretti in cui godono di un ampio margine di voti – compresi i più radicali fra loro, un’ottantina, eletti nelle aree ultra-conservatrici (e bianche) del Sud e del Midwest. E qui c’è il trucco: costoro non hanno incentivi elettorali a piegarsi ai compromessi parlamentari, non temono di perdere il posto; in effetti, l’unica cosa che temono, a casa loro, è di essere sfidati da compagni di partito ancora più di destra. Possono dunque essere serenamente intransigenti, ed esercitare con gusto la minority rule, il governo della minoranza.
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