Le Campbell’s Soups erano un’icona americana ben prima di Andy Warhol. La Campbell Soup Company, fondata da Joseph Campbell nel 1869, ci si era messa d’impegno fin dall’origine della sua storia, a fine Ottocento, quando le sue zuppe condensate in scatola invasero il mercato e vinsero premi di eccellenza alla Esposizione Universale di Parigi del 1900. Le brillanti etichette bianche e rosse, copiate dai colori delle maglie di una squadra di football, facevano la loro bella figura sugli scaffali e nei manifesti pubblicitari. Un oggetto in particolare suscitò attenzione: un’insegna metallica in cui le lattine di zuppa allineate componevano una grande colorata bandiera a stelle e strisce (l’immagine qui sopra). Nel primo decennio del Novecento l’insegna circolò molto, ma poi fu ritirata dalla ditta stessa e le sue copie in gran parte distrutte: c’erano state proteste contro l’abuso profano di un oggetto sacro come la bandiera nazionale. In anni più vicini a noi, le copie sopravissute sono andate all’asta per decine di migliaia di dollari – non prezzi da Warhol, d’accordo, ma insomma.
Alla fine dell’Ottocento l’uso commerciale della bandiera era in effetti diventato piuttosto comune, nella pubblicità e nel packaging dei prodotti. Se ne adornavano sigari, birra, whiskey, cereali, biscotti, prosciutti, macchine di uso domestico, saponi, olio di fegato di merluzzo, mutande da pugile, cappotti per cani. La bandiera vende, dicevano i primi manuali di advertising. Le autorità non ne erano troppo felici. Dopo il volgere il secolo cominciarono a pensare di porre dei limiti. Nel 1905 il Congresso vietò i colori nazionali nei marchi che dovevano essere registrati presso il Patent Office federale. Parecchi Stati ne vietarono l’inclusione nella pubblicità e nelle etichette. Una sentenza della Corte Suprema del 1907 confermò i divieti e ne spiegò il motivo: erano segni di rispetto per l’amato simbolo del prestigio e dell’onore nazionale. Queste norme non furono mai applicate davvero, ma segnalavano l’esistenza di un diffuso sentimento, il timore che il commercialismo corrompesse i valori del patriottismo.
Sublime ironia, verrebbe da dire, per un paese che è sempre stato considerato l’incarnazione stessa dello spirito commerciale. La mia citazione preferita in proposito viene da un giornale italiano del 1909, in cui si descrivono gli Stati Uniti che si preparavano alla conquista economica dell’Europa: “Questo paese che non esiste, che non è un popolo, non ha nome, non ha storia, non ha passato insomma, che è una accozzaglia di bottegai audaci sotto una ragione sociale vuota di tutto che non sia denaro, si può dire che non abbia presente, che cioè ha un solo presente, ed è quello della finanza, l’affare. Qui il governo che è? Che è la classe dirigente? Delle enormi scimmiottature che servono a cose di poco conto. Essi non hanno nulla da tutelare e proteggere, non hanno ciò che è il patrimonio più grande, perché eterno, di ogni altra unità politica: la tradizione”. Che simili stupidaggini reazionarie comparissero su Il Divenire Sociale, un periodico dei socialisti rivoluzionari, apre un altro discorso – che chiudo subito qui.
E’ invece la conclusione del passo che mi interessa, con il suo tocco di cromatica profezia pop: “Diamo per ipotesi che la conquista si compia ed il mondo sarà una fiera cui simbolo è la bandiera degli Stati Uniti: un enorme cartellone-réclame”. Avrebbe ben potuto essere il cartellone-réclame, distrutto e poi venduto come prezioso oggetto di modernariato, delle Campbell’s Soups.
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