Alcune cose che credo di aver capito leggendo in maniera molto selettiva, e senza alcuna responsabilità loro, il saggio di Andrew Arato e Jean Cohen, Civil Society, Populism and Religion, in «Constellations», 24 (2017), pp. 283-295. E grazie a Nadia Urbinati che me l’ha segnalato. Metto fra parentesi e in corsivo qualche mia sparsa considerazione.
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Il populismo è una ideologia debole, dicono Arato e Cohen. Vuole restituire al popolo il posto di sovrano che gli spetta, riscattarlo dall’esclusione e dal silenzio a cui è stato ridotto dalle élite usurpatrici e corrotte, ridargli la possibilità di tornare a governare (nell’immaginazione populista c’è sempre un’età felice del passato in cui il popolo governava davvero, chissà quando). Nella sua forma soft può essere una critica delle manchevolezze della democrazia realmente esistente. Nella sua forma hard, è invece in tensione sovversiva con la struttura del sistema democratico. Se il popolo è inteso come una entità organica, autentica e moralmente superiore, che si incarna in un leader (un salvatore) che gli dà unità e rappresentazione – be’, allora è impossibile pensare qualunque altra legittima espressione del popolo nella società o nel governo. Fuori dal popolo c’è solo il non-popolo, i nemici del popolo. Il populismo, identificando la parte (se stesso) per il tutto, nega così il pluralismo politico e sociale, e la separazione fra politica e società civile, che sono al cuore della democrazia liberale.
E tuttavia, quanto ai contenuti ideali, l’ideologia populista resta abbastanza indeterminata, debole appunto, priva del forte claim morale necessario a una vigorosa mobilitazione. Storicamente ha cercato questi contenuti ideali accoppiandosi con “host ideologies” più dense, tipo il nazionalismo e il razzismo, il fascismo o il comunismo, a seconda dei tempi e dei contesti locali. Oggi queste ideologie sembrano screditate e poco adatte allo scopo. Anche l’etno-nazionalismo o il nazionalismo culturale hanno un problema a unificare il popolo in paesi come gli Stati Uniti in cui il popolo stesso è diventato multietnico e multinazionale (quindi il nazionalismo bianco è troppo limitato e limitante?). Una risorsa disponibile è invece la religione, l’identità religiosa, capace di fornire un contenuto alla costruzione del popolo buono, il “noi morale”, contro l’altro da noi, immorale e corrotto. La presenza della religione (e qui gli Autori intendono quella cristiana) nella società civile (e qui gli Autori intendono di fatto in Europa e Stati Uniti) fornisce agli imprenditori politici populisti uno strumento utile a riempire i vuoti del populismo stesso.
La religione ha acquisito rilevanza nella politica populista contemporanea, in particolare nei movimenti di destra, almeno dall’ultimo decennio del Novecento. Ciò è accaduto nei paesi europei, con varie declinazioni nazionali, e anche negli Stati Uniti. Non mi soffermo sulle situazioni europee se non per segnalare due aspetti comparativi, uno in contrasto, l’altro in convergenza con la situazione americana. In contrasto: in Europa occidentale l’identità cristiana è invocata contro una minaccia di “invasione” e “sostituzione” islamica, e in presenza di una perdita di vitalità popolare delle chiese cristiane. Negli Stati Uniti, dove le confessioni popolari sono ben vive, il nemico sembra piuttosto il secolarismo delle élite, dell’establishment. In convergenza: in entrambi i casi nei discorsi populisti c’è una culturalizzazione dell’identità religiosa, narrata come fondamento spirituale di civiltà nazionali, o di una comprensiva civiltà occidentale, in quanto cristiana ma anche giudeo-cristiana o laico-cristiana, con riferimenti non alla fede bensì al senso di appartenenza.
Negli ambienti populisti di destra degli Stati Uniti si è affermato un nazionalismo religioso secolarizzato che è stato chiamato “cristianismo”. Dove “cristianismo” indica un programma politico mentre la cristianità è una religione; e il suo uso come strumento di mobilitazione non ha nulla a che fare con la fede, con un revival di convinzioni religiose. E’ piuttosto una forma di “belonging without believing”, di appartenere senza (necessariamente) credere, che si è manifestata nell’alleanza fra cristiani evangelici e ala destra populista del partito repubblicano. Un’alleanza che da una parte, sia pure con qualche incertezza, ha portato gli evangelici a votare in stragrande maggioranza per Donald Trump, un uomo (mettiamola così) in tutta evidenza estraneo a qualunque afflato trascendente. E che, dall’altra, può fare dell’amministrazione Trump il “cavallo di Troia” della destra religiosa, quella che legge in chiave cristiana la vera natura dell’America, del suo popolo, del suo ruolo nel mondo, della sua Costituzione, dei rapporti sociali, familiari, personali, di genere, dei suoi cittadini (rapporti cristiani cioè patriarcali).
L’alleanza dei cristiani evangelici, in particolare nella loro versione integralista politicizzata (gli Autori accennano ai cattolici solo parlando dell’Europa, mai degli Stati Uniti), con i populisti si fonda su un comune intendimento sistemico. Anch’essi, come i populisti, negano il pluralismo della società civile e la separazione fra società civile e società politica, che nel caso specifico è separazione fra stato e chiesa. E questo è un serio pericolo per la democrazia liberale. Naturalmente (per fortuna, dicono gli Autori) non tutto fila liscio nella santa alleanza, ci sono elementi di tensione che ne rendono aperti gli sviluppi. Nel populismo c’è una deificazione del popolo e (in certi casi) del leader che lo incarna, che è ricalcata sul discorso religioso, compete con esso e da esso può essere visto come idolatria. L’uso della religione come un indicatore di identità nazionale o culturale senza alcun significato trascendente, è problematico per chi ha fede, per chi crede. Ci sono infine cristiani che vedono i loro valori non come legati a particolari luoghi o comunità o civiltà bensì come universali, parte di un messaggio universalistico che è in conflitto con i messaggi escludenti dei populisti.
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