Buttando via pacchi di vecchie fotocopie come se fosse pasqua, chili e chili di fotocopie (una volta si usava carta abbastanza pesante), è riemerso questo articolo di tanti anni fa di cui, per motivi che oggi mi sono oscuri, avevo cominciato anche una traduzione. Trattasi di Christopher Lasch, “Counting by Tens”, Salmagundi, No. 81 (Winter 1989), e qui sotto ci sono i pochi passi tradotti.
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Di tutte le suddivisioni del tempo storico, le più arbitrarie – e allo stesso tempo le più ovviamente indispensabili – sono i mesi e gli anni del calendario, che assumono la coloritura degli accadimenti memorabili a cui sono associati anche se non hanno con essi alcun legame logico. Per qualche ragione la storia americana sembra offrirsi anche troppo facilmente a una periodizzazione per decenni, che sono le unità più insoddisfacenti di tutte – troppo brevi per essere di qualche reale valore interpretativo, lunghe abbastanza da avere qualche interpretativa plausibilità.
Che non abbiamo più a che fare semplicemente con una unità di misurazione storica diventa chiaro quando veniamo a sapere che i decenni possono camminare e parlare, che hanno forti sentimenti rispetto a certe cose, che talvolta hanno la sconcertante abitudine di fare una qualche ricomparsa oltre il tempo loro assegnato, e che possono persino riprodursi accoppiandosi con altri decenni.
La reificazione dei decenni li rende qualcosa di più di una convenienza cronologica. In alcune affermazioni, l’idea dei decenni assume quasi toni normativi, come se l’inizio di un nuovo decennio imponesse, automaticamente, un nuovo assortimento di stili politici e culturali. Per esempio, ci dicono che nel 1970, “nessuno pianse la fine del decennio”. Ma perché qualcuno avrebbe dovuto provare delle particolari emozioni, di lutto o d’altro tipo, per un cambiamento nel calendario? L’affermazione ha un senso solo se si presume che la fine ufficiale degli anni sessanta segnò anche la fine della politica radicale, delle marce di protesta, dei figli dei fiori, della Great Society, della guerra alla povertà, degli assassinii politici, del Black Power, delle agitazioni studentesche, del Living Theater e della minigonna. [Dire questo significa condividere] il modo di pensare che spinse l’industria della moda a scegliere l’anno 1970 per decretare il ritorno delle gonne lunghe o i mass media ad annunciare, nello stesso anno, un segno dei tempi nuovo di zecca: la “nostalgia”.
In un mondo di mode che cambiano rapidamente e di obsolescenza programmata, il giornalismo minaccia di prendere il posto una volta occupato dall’analisi storica. Il concetto di decennio si raccomanda quindi come l’unità standard di misurazione storica, per la stessa ragione per cui i cambiamenti annuali di modello di automobile si raccomandano a Detroit: è garantito che non durerà. Ogni dieci anni deve essere sostituito con un nuovo modello; questo rapido turnover tiene l’industria della comunicazione occupata a individuare nuovi trend, mentre libera il resto di noi dalla necessità di riflettere a lungo su ogni dato set di problemi – che comunque abbiamo pochissima fiducia di saper risolvere.
Non essendo riusciti negli anni sessanta a risolvere i problemi del razzismo, della povertà, dell’imperialismo, possiamo accantonarli negli anni settanta, insieme alle minigonne e alle cravatte strette. Negli anni settanta, gli americani non sono riusciti a risolvere i problemi dei diritti umani o della crescita economica illimitata o dell’esaurimento delle risorse energetiche o della proliferazione delle armi nucleari. E’ stato pertanto con sentimenti di considerevole sollievo che si sono rivolti agli anni ottanta, lasciandosi alle spalle queste intrattabili difficoltà e abbracciando nuove distrazioni. Nell’età del capitalismo dei consumi e dei mass media, quando l’industria della moda estende sempre di più il suo dominio sulla fabbricazione delle opinioni, il ciclo di vita dell’attenzione storica è diventato sempre più breve fino ad avvicinarsi all’atrofia.
Categorie:cultura di massa, storiografia
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