Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Le elezioni primarie negli Stati Uniti

Arthur Rothstein, Democratic Primary. Vincennes, Indiana, 1938. Library of Congress

Una maratona di due anni

La stagione delle presidential primaries degli Stati Uniti comincia all’inizio di gennaio, ma la rincorsa è lunga, la preparazione è necessaria con molti mesi di anticipo. Le campagne elettorali presidenziali sono diventate una maratona di due anni, e il sistema delle primarie ne è in gran parte responsabile. O almeno, è responsabile di aver reso la maratona un affare pubblico, gestito in pubblico, con il coinvolgimento degli elettori, sotto gli occhi dei mass media. Uno spettacolo, anche. Uno spettacolo americano.

Anche nell’antico regime pre-primarie le candidature serie non erano inventate lì per lì. Erano tuttavia un affare interno dei dirigenti di partito, riservato, talvolta proprio segreto. Anche per questo, quando furono introdotte, le primarie suscitarono resistenze e perplessità. I vecchi party bosses, e si capisce, non ne volevano sapere. Il democratico newyorkese George Washington Plunkitt, una simpatica canaglia, parlò nel 1905 della “nera ombra delle primarie” che avrebbe significato il trionfo dei dilettanti in politica, la fine dei partiti, “la distruzione del governo di partito, la rovina della costituzione e, più in generale, il caos”.

I mugugni sono continuati, ma le primarie sono diventate routine. “Un sacco di gente critica le primarie, ma io penso che siano assolutamente essenziali all’educazione del presidente degli Stati Uniti”, disse a suo tempo Pierre Salinger, addetto stampa di John Kennedy e Lyndon Johnson e campaign manager dello sfortunato Bob Kennedy. Più spensieratamente ha detto più di recente la repubblicana Sarah Palin: “Checché vogliano farci credere certi sapientoni, primarie combattute non sono la guerra civile, sono la democrazia al lavoro, e ciò è bellissimo”.

Le origini

Le elezioni primarie americane hanno una storia più che secolare. Si sono diffuse nel sistema politico in due distinti periodi. Il primo è all’inizio del Novecento, nella cosiddetta Età Progressista, quando il meccanismo delle primarie come lo conosciamo oggi è stato inventato, soprattutto per la selezione dei candidati alle cariche statali e locali (governatori, deputati e senatori delle assemblee legislative statali, sceriffi, sindaci ecc.). Un certo numero di Stati adottò le primarie anche per le elezioni alle cariche federali (Camera dei Rappresentanti, Senato degli Stati Uniti, Presidenza) ma almeno le presidenziali non suscitarono grande consenso; in alcuni casi vennero persino abolite dopo qualche anno. 

Il secondo periodo è fra gli anni sessanta e settanta, e ha riguardato in pieno le primarie per le elezioni presidenziali come le conosciamo oggi. E cioè, è bene specificarlo subito, ha riguardato la selezione dei delegati alle convenzioni nazionali dei partiti che poi devono nominare il candidato alla presidenza. La convention, il congresso di partito resta sovrano nel fare la nomination. Se si arriva al congresso con una maggioranza assoluta di delegati impegnati a favore di un singolo nome, allora i giochi sono fatti. Ma se non c’è maggioranza, allora i giochi si fanno lì. Insomma, almeno formalmente, non c’è nomination diretta da parte degli elettori. 

La diffusione delle primarie presidenziali è stata rapida. Nel 1960 si tenevano in 16 Stati, sceglievano un quarto dei delegati, ed erano poco influenti; il resto dei delegati con­tinuava a essere scelto tramite i tradizionali congressi statali, i caucuses. Nel 1980 erano salite a 32, sceglievano quasi i tre quarti dei delegati, ed erano decisive. Dal 1992 i caucuses si sono ridotti al lumicino, le primarie si tengono in una quarantina  di Stati, e succede quasi tutto lì.

Le motivazioni

In entrambi i periodi, le motivazioni e le spinte politiche che hanno portato all’invenzione delle primarie, e poi alla loro diffusione, sono state simili. C’erano gruppi sociali-elettorali che non si sentivano rappresentati nelle organizzazioni di partito esistenti. Le accusavano di essere vecchie, burocratiche, auto-referenziali, corrotte. Quelle organizzazioni, si diceva, erano gestite da “stanze piene di fumo” dove i boss decidevano tutto fra loro, facevano e disfacevano candidature e carriere, intrallazzavano con interessi inconfessabili, facevano affidamento su fedeltà elettorali che si assicuravano con politiche clientelari. Incarnavano insomma la partitocrazia, che gli americani di un secolo fa chiamavano party supremacy e, da un altro punto di vista, machine politics

E c’erano pezzi di un emergente ceto politico, giovani e intraprendenti, che intendevano dar voce e rappresentanza alle nuove istanze. Pensavano di tradurle in nuove policies di governo, e allo stesso tempo di promuovere le loro sacrosante ambizioni personali, dentro i partiti e cambiando i partiti. Era difficile farlo dall’interno, secondo le regole definite e controllate dagli apparati. Gli insurgents, i rivoltosi si mossero quindi dall’esterno, con le elezioni primarie introdotte per legge dagli Stati. Invece di attaccare frontalmente, aggirarono l’ostacolo, attaccarono di fianco. Ed ebbero successo. Il sistema dei partiti è cambiato davvero.

Le trasformazioni del sistema dei partiti: inizio ‘900

Non è facile isolare l’impatto specifico delle primarie in questi cambiamenti, che hanno avuto a che fare con trasformazioni sociali, economiche, politiche di largo respiro, nazionali e internazionali. E’ indubbio tuttavia che il loro avvento e poi la loro diffusione hanno coinciso con i momenti critici, più turbolenti e decisivi di queste trasformazioni. E ne sono stati uno strumento fondamentale. 

In questi momenti critici, le primarie hanno favorito un rapido ricambio di personale politico nei partiti e nelle cariche elettive, mettendo in campo energie fresche. Hanno anche favorito la migrazione di nuovi leader, attivisti e in effetti di interi gruppi sociali elettorali da un partito all’altro, secondo nuove affinità e alleanze ideologiche. Hanno insomma rimescolato le carte del gioco. E ciò ha ridisegnato le basi sociali e i blocchi elettorali di riferimento dei partiti, e quindi la mappa politica del paese. 

Già la prima stagione delle primarie, all’inizio del Novecento, è stata importante. Agendo soprattutto a livello statale, quella stagione ha contribuito a far confluire elettori e giovani politicians progressisti di origine repubblicana nel partito democratico. E viceversa, ha fatto confluire forze conservatrici di origine democratica nel partito repubblicano. Da lì sono nati i partiti degli anni trenta del New Deal e dell’anti-New Deal, e del mezzo secolo successivo. E’ lì che i democratici sono diventati, con il linguaggio di allora, the party of Labor e i repubblicani the party of Capital, cosa che non erano prima. 

Le trasformazioni del sistema dei partiti: post-1968

La seconda stagione delle primarie, quella molto presidenzialista iniziata fra anni sessanta e settanta, è stata altrettanto importante. Nacque da un progetto della leadership democratica. Dopo la sconfitta del 1968 a favore del repubblicano Richard Nixon, il Democratic National Committee raccomandò riforme radicali per incorporare nel partito i nuovi movimenti (diritti civili, anti-guerra, studenteschi, femministi) che offrivano potenziali serbatoi di voti ma che erano guardati con sospetto, se non con ostilità, dagli apparati statali e locali e dai dirigenti più tradizionali. La moltiplicazione delle primarie negli Stati servì ad aprire il ventaglio delle candidature possibili, a garantire che i delegati alla convention nazionale rappresentassero tutte le opinioni e tutti i gruppi demografici (giovani, donne, afroamericani, altre minoranze) in “rapporto ragionevole” alla loro presenza nella popolazione dei singoli stati. Anche con quote rigide. 

La cosa, vista in prospettiva, ha funzionato a suo modo, in modo felice e infelice. Le primarie presidenziali sono state centrali nel portare i democratici verso la nuova, pesante sconfitta di George McGovern contro Nixon nel 1972; dopo un periodo di ripensamento, hanno tuttavia contribuito a creare le candidature di successo di Bill Clinton nel 1992 e di Barack Obama nel 2008. Fra i repubblicani sono state lo strumento dell’ascesa di Ronald Reagan nel 1980 e di Donald Trump nel 2016, quindi dei successi dei movimenti sociali e politici più consevatori. 

Sulle primarie, insomma, si sono plasmati i partiti che più o meno conosciamo oggi.  In entrambi i casi le primarie hanno dato flessibilità alle organizzazioni di partito, hanno consentito loro di esprimere i cambiamenti sociali in atto, di incorporarne i protagonisti. Che tutto ciò abbia prodotto un sistema politico polarizzato e la paralisi del governo federale è forse un segno che le primarie sono state troppo efficaci nel riflettere senza mediazioni i conflitti nella società.

La regolamentazione giuridica dei partiti

Se non puoi conquistare il partito con le sue regole interne, inventa regole esterne, imponile per legge, con leggi statali: questo si dicevano e fecero gli insurgents. Ma la legge è legge, e la conseguenza è che l’autorità pubblica è intervenuta a disciplinare la vita interna dei partiti, a limitare almeno in parte il potere dei loro organi di governo. Cosicché fin dall’inizio del Novecento si è posta la questione della regolamentazione giuridica dei partiti politici. 

Proprio a seguito dell’invenzione delle primarie si è rovesciata la dottrina che il partito sia una associazione vo­lontaria, un club privato, e si è affermata la dottrina opposta, che sia “una agenzia dello stato”»” soggetta alla legge e tenuta a rispettarla. E’ in base a questi principi che, nel 1944, la Corte suprema federale stabilì che le organizzazioni partitiche avrebbero dovuto inchinarsi ai principi costituzionali di eguaglianza, quindi non avrebbero potuto escludere dalle primarie i cittadini afroamericani. Cosa che invece si faceva con entusiasmo nelle “primarie bianche” degli Stati del Sud segregato, e che, in effetti, allora si continuò a fare. 

I lacci e lacciuoli possono essere tanti e dettagliatissimi. Per esempio, la legislazione dello Stato di New York, forse uno degli Stati con la legislazione più articolata, regola il come, dove e quando delle primarie. E le impone non solo per la scelta dei candidati alle varie cariche pubbliche, ma anche per la scelta degli aspiranti alle cariche di partito, a leader locale, a membro dei comitati di contea e del comitato centrale statale. Con molto red tape, carte da riempire, firme da raccogliere, scadenze da rispettare.

I tipi di primarie

Le leggi entrano anche nella sfera individuale degli elettori, con diversa forza a seconda del tipo di primaria che capita loro in sorte, dello Stato in cui capita loro di vivere. Perché non esiste una omogenea normativa federale. Le primarie sono regolate da leggi statali, cioè dei singoli Stati, e quindi da Stato a Stato hanno caratteristiche diverse (anche date diverse, quelle presidenziali sono spalmate su vari mesi). Le differenze più ovvie riguardano la definizione di chi fra gli elettori è effettivamente ammesso al voto nelle primarie di ciascun partito.

 Nelle cosiddette “primarie chiuse” (closed primaries), come quelle di New York, possono partecipare solo quei cittadini che si iscrivano nelle liste elettorali esprimendo una pubblica scelta di partito. Diventino insomma, pubblicamente, registered Democrats o registered Republicans. In altri Stati ci sono “primarie aperte” (open primaries), dove chiunque può partecipare a una delle due, scegliendo la preferita al momento del voto. In alcune primarie, per poter scegliere liberamente, bisogna pre-iscriversi come registered Independents. E così via, in un flusso di varianti, comprese le varianti estreme.

In alcuni Stati le primarie sono più che aperte, sono apertissime, spalancate. Capita che si possa votare nelle primarie di partiti diversi per cariche diverse. Oppure, come in California, che ci sia per molte cariche statali (non per presidente) una primaria unica in cui corrono tutti i candidati di tutti i partiti. I primi due (top-two primary) vanno all’elezione generale, anche se sono dello stesso partito, e ciò non è un evento raro. In questi ultimi casi si parla di nonpartisan primaries o, nel gergo degli addetti ai lavori, di jungle primaries, che esprimono una sorta di radicale spirito anti-partito. Le closed primaries, all’opposto, sono il tentativo dei partiti di mantenere vive nell’elettorato le divisioni e le fedeltà di parte. Le due spinte convivono nelle culture politiche e nelle legislazioni del vasto paese.

La competitività interna ai partiti

Oltre le regole ci sono poi i comportamenti, e non mancano i problemi prodotti dalla natura stessa del marchingegno. Il primo problema è elementare. Essendo le primarie delle competizioni fra singoli e gruppi all’interno di uno stesso partito, è inevitabile che si creino tensioni, divisioni politiche, dissapori personali, che in certi momenti possono degenerare in “bagni di sangue”. Dopodiché, a primaria finita, con qualche fatica, tanta buona volontà, bisogna ricostruire l’unità del partito per affrontare le elezioni generali. Per i leader professionisti può essere più facile controllare e mettere da parte le passioni, per i seguaci appassionati magari un po’ meno.

Come evitare che i candidati sconfitti e arrabbiati se ne vadano per conto loro e si presentino con una propria lista alle elezioni generali, è un problema relativamente secondario. Qui, infatti, provvede il sistema elettorale, basato sul collegio uninominale a maggioranza semplice. I candidati indipendenti, con i cosiddetti “terzi partiti”, hanno in genere poco spazio, poche possibilità di essere eletti. Hanno invece parecchie possibilità di far perdere il proprio partito di provenienza, sottraendogli abbastanza voti. E anche questa può essere una soddisfazione. Infatti talvolta, non spesso, ciò accade. 

Per il resto ci si affida al bon ton, per quel che vale. Qui il folklore politico ricorda soprattutto una battuta che viene del milieu repubblicano, e che era nota come l’Undicesimo Comandamento di Ronald Reagan: “Non parlare mai male degli altri concorrenti repubblicani”. Che vuol dire trattenersi dagli attacchi personali, non certo da quelli politici. Il comandamento va bene finché il gioco non si fa duro o finché non appaiono sulla scena personaggi con istinti eversivi. Quando ciò accade, nessuno se lo ricorda più. E allora le primarie diventano un gioco al massacro, giocato con ogni mezzo necessario.

La personality politics

Un secondo problema deriva dall’affermarsi della personality politics  nella vita pubblica. Le primarie contribuiscono a questo, lasciano sullo sfondo gli apparati di partito, portano alla creazione di macchine elettorali dei singoli candidati. Queste macchine sono personali, assai complesse e sofisticate in una competizione nazionale come quella per la presidenza. Inevitabilmente esaltano il ruolo e i tratti caratteriali del leader, un leader che, idealmente, sia capace di dividere e vincere dentro il partito, e subito dopo di unire il partito e di allargarne il consenso nella battaglia politica generale. Vasto programma.

La questione della personality politics è in effetti meno rilevante e decisiva di quanto possa sembrare. I leader sono importanti e visibili, ma sono prodotti del partito e dal partito, che è necessario alla loro esistenza e, quando vincono, alla loro vittoria. I due grandi partiti non sono “partiti del leader”, tanto meno partiti personali. Sono piuttosto partiti che producono leader che fra l’altro, storicamente, non sono guide di lunga durata del partito-comunità bensì detentori temporanei, a scadenza, di cariche pubbliche elettive. 

I partiti personali, negli Stati Uniti, ci sono stati, ma sempre piccoli. Hanno vissuto lo spazio di un ciclo elettorale e hanno vinto poco o niente. I democratici e i repubblicani non sono questo, anche quando sembrano identificarsi con figure carismatiche che li definiscono, il partito di Roosevelt, il partito di Reagan, persino il partito di Trump (da scommetterci, tuttavia la scommessa è ancora aperta). Questi partiti hanno storie secolari. E ce l’hanno perché sono e sono sempre stati sia macchine elettorali che partiti organizzati con strutture permanenti, con club e militanti e iscritti – oltre la politica della personalità.

I candidati giusti?

I partiti americani hanno dunque tre basi distinte, con numeri crescenti: gli attivisti di professione, gli elettori delle primarie, e gli elettori delle elezioni generali. E qui c’è un nuovo problema. Che cosa succede se le tre basi non sono in armonia? In particolare, che cosa succede se dalle primarie emerge un candidato che è amato dai cittadini che le frequentano (i più motivati e ideologici), non è amatissimo dai professionisti (gente cinica senza grilli per la testa) ed è poco attraente per il pubblico generale. Perché magari è laterale rispetto al mainstream, si colloca un po’ troppo verso gli estremi dello spettro politico. E quindi non è eletto. 

Accade quello che, per esempio, è accaduto con McGovern nel 1972. Un candidato come lui, percepito come left-liberal, presentato dagli avversari come circondato di hippy e pacifisti anti-patriottici, in conflitto con l’establishment del partito, disertato da pezzi importanti dell’elettorato più tradizionale e non più fedele, è stato infine sepolto dalla valanga repubblicana di Nixon (37% contro il 61% del voto popolare). I dirigenti democratici reagirono così: “Mai più un McGovern”. E, dove poterono, avviarono delle riforme legislative per riprendere qualche controllo sui meccanismi di selezione. 

Una di queste riforme, a livello presidenziale, ha riguardato il calendario delle primarie. Invece di essere distribuite in settimane distinte, una dopo l’altra, sul lungo periodo fra inverno e primavera, com’era abitudine, molte primarie sono ora concentrate in un unico giorno. Sono i cosiddetti “supermartedì”, con il primo piuttosto presto nella stagione, effetto frontloading. Il nuovo sistema scoraggia l’accesso di pretendenti marginali o radicali, che in genere dispongono di poche risorse, ce la fanno a tenere il ritmo di una primaria dopo l’altra ma sono travolti dal fare campagna in molti Stati tutti insieme. E favorisce i candidati centristi con grandi risorse, capaci di agire a largo raggio. 

I costi e le “primarie invisibili”

Le primarie costano. Non per la loro organizzazione tecnica. Essendo elezioni di Stato, av­vengono con procedure statali, personale statale, a spese dello Stato cioè della fiscalità generale, cioè dei contribuenti. Sono le spese dei singoli aspiranti alla nomination a impattare sul sistema, spese che salgono man mano che si passa dalla piccola dimensione locale a quella statale e infine nazionale. E che sono molto salite negli ultimi decenni. A livello presidenziale, ogni tornata si annuncia come la più spendacciona della storia, fino a quel momento. 

Per competere in tanti Stati, magari simultaneamente come nei supermartedì, bisogna avere milioni di dollari. Bisogna essere in grado di condurre (per usare il linguaggio guerresco che è storicamente connaturato alla politica elettorale) sia campagne regolari lunghe che guerre lampo, avendo truppe ovunque, bombardando a tappeto i quartieri, le reti televisive, i telefoni, gli indirizzi email, i social media di intere regioni. E’ per questo che, prima ancora che la stagione delle primarie cominci, c’è la competizione nelle cosiddette “primarie invisibili”, ovvero le “primarie del denaro”. 

Raccogliere finanziamenti in anticipo è decisivo per chiunque voglia conferire serietà alla propria corsa, e avere la speranza di at­trarre ulteriori finanziamenti in futuro. Ma c’è di più. Raccogliere subito molti finanziamenti da donatori piccoli e grandi vuol dire tener fuori dalla gara, o far ritirare alla svelta, quei concorrenti che, essendo meno dotati in questo campo, sono destinati a sconfitta sicura, qualunque siano le loro altre qualità. Così che, in genere, quando cominciano le elezioni primarie e i caucuses di partito, quando cominciano a esprimersi i cittadini elettori, una prima selezione è già stata fatta. Le possibilità di successo dei vari candidati dipendono dai loro war chests – i loro fondi di guerra per le battaglie che stanno per cominciare.

Nell’anno presidenziale 2024

In questo 2024, con il candidato democratico un incumbent, cioè il presidente in carica quasi non sfidato, le primarie democratiche si annunciano, almeno per il momento, di scarso interesse. Tutta l’eccitazione è per quelle repubblicane. Si comincia con i caucuses repubblicani in Iowa, nel Midwest, lunedì 15 gennaio. Poi ci sono le primarie di entrambi i partiti in New Hampshire, nel Nordest, il 23 gennaio. Poi pochi altri caucuses o primarie in qualche altro Stato, in Nevada (Sudovest), in South Carolina (Sud), in Michigan (Midwest), e così via. Si tasta il terreno qua e là, in regioni diverse con constituencies sociali diverse, con prudenza, in piccolo, scaramucce, guerriglia. Infine si arriva al supermartedì del 5 marzo. Una quindicina di Stati tutti insieme, in tutto il paese, centinaia e centinaia di delegati di partito in ballo, roba grossa, California e Texas, Massachusetts e Virginia, Alabama e Minnesota, North Carolina e Tennessee. Uno scontro campale con l’artiglieria pesante. Possibile che a quel punto i giochi che devono essere fatti, siano fatti. 

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