Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Il monumento a Lincoln, paternalista ma da onorare: parola di Frederick Douglass

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Update! Aggiornamento 6 luglio! E così, nel giro di pochi giorni, quello che si credeva di sapere solo per sentito dire è stato confermato da una fonte primaria, diretta, un documento a stampa. Due storici (Jonathan White e Scott Sandage: lo raccontano qui)  hanno trovato una lettera di Douglass a un quotidiano di Washington, il National Republican (sì, era un giornale di partito, del Partito), di cui finora nessuno s’era accorto. Nella lettera, pubblicata quasi una settimana dopo l’inaugurazione dell’Emancipation Memorial, Douglass scrive quello che ha detto ma non scritto nella sua orazione cerimoniale, e cioè:  “Il nero qui, benché nell’atto di alzarsi, è ancora in ginocchio e nudo. Ciò che voglio vedere prima di morire è un monumento che rappresenti il nero, non piegato sulle ginocchia come un animale a quattro zampe, ma eretto in piedi come un uomo”. E così sia.

Douglass chiarisce altri punti delle sue critiche al monumento, pur non mettendone in discussione l’importanza, anzi suggerendone un’integrazione. E cioè, dice, il monumento esprime bene l’atto di rompere le catene, un atto che è di Lincoln. Ma l’atto di rendere i neri dei cittadini con il diritto di voto non è di Lincoln bensì del presidente Grant, e questo non è riconosciuto. (Forse è questa una ragione della sua insoddisfazione per il modo in cui è raffigurato il nero: è libero ma in ginocchio, non ancora cittadino come ormai è, in piedi “like a man”? D’altra parte uno schiavo in ginocchio e implorante “Am I not a man?” era l’icona paternalistica, qui, del vecchio abolizionismo: è l’ora di liberarsi di quel paternalismo, ora che l’abolizione c’è stata?) E dunque, conclude Douglass, c’è posto a Lincoln Park per un altro monumento, un’idea ritornata di attualità oggi, ne discute qui David Blight, lo storico e biografo di Douglass.

E infine. All’inizio della lettera (così breve, così densa) c’è una perla di saggezza che potrebbe servire a tutti noi: quel monumento lì, dice Douglass, “non dice, mi sembra, l’intera verità, e forse nessun monumento potrebbe davvero dire l’intera verità su qualunque soggetto che sia designato a illustrare”. Di nuovo, amen.

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“I don’t see freedom”, dice un contestatore, guardando il monumento che, in una piazza di Boston, celebra il Proclama d’emancipazione e la fine della schiavitù, più di un secolo e mezzo fa. Il monumento è composto da una statua di Abraham Lincoln che torreggia, in piedi e vestito, accanto a uno schiavo liberato, seminudo e in ginocchio ai suoi piedi. E’ indubbio che raffiguri il presidente-martire in una postura paternalistica: è il Grande Emancipatore bianco e potente che dona la libertà a un maschio nero riconoscente e passivo. Qualcuno chiede che, per questo, sia rimosso. Un eccesso di sensibilità contemporanea alla rappresentazione delle gerarchie razziali tipica di altri tempi, di altre epoche? Una rappresentazione difficile da criticare, quindi, se non con sguardo anacronistico? Che, per giunta, va a colpire persino un evento epocale e una figura venerata come Lincoln?

Be’, non esageriamo con le differenze di sensibilità. Il monumento di Boston è la copia del 1879 di un originale che sta a Lincoln Park a Washington, e che è noto come Freedman’s Memorial o Emancipation Memorial. Fu inaugurato il 14 aprile 1876, undicesimo anniversario dell’assassinio di Lincoln. Uno dei discorsi di dedica fu tenuto da Frederick Douglass, il grande abolizionista e attivista afro-americano. E Douglass affermò, con gentile durezza, che il disegno non era di sua soddisfazione. Secondo un testimone, disse qualcosa del tipo, “mostra il nero in ginocchio mentre un atteggiamento più virile avrebbe indicato meglio l’idea di libertà”. Douglass vide quello che videro e intesero molti suoi contemporanei. In effetti vide esattamente quello che gli sponsor più influenti del monumento avevano infine inteso che si vedesse.

La sensibilità era quella, anche allora; e fu proprio quella sensibilità a dettare consapelvolmente la forma del monumento.

Il progetto era nato dal basso, dall’idea di una ex schiava a guerra appena finita, e da una raccolta di fondi fra i soldati di colore. Doveva essere un omaggio della comunità nera al grande presidente, un dono dei nuovi cittadini alla nazione. Ma la gestione dell’operazione era stata presa in mano da una associazione di bianchi “amici degli schiavi liberati”, come dicevano di essere; e nei dieci anni che c’erano voluti per portarla a termine, erano stati loro a “determinare il carattere del monumento”, come dicevano di voler fare. Il risultato fu la statua disegnata dallo scultore Thomas Ball, il suo paternalismo razziale voluto fin dall’inizio e in effetti aggiustato nel tempo, con cognizione di causa. Nel disegno originale sembrò troppo audace che lo schiavo inginocchiato portasse il liberty cap, il berretto frigio della libertà, che fu tolto. Ma poi sembrò che fosse troppo passivo, e allora il suo braccio destro fu alzato, in effetti deformato, la mano chiusa a pugno, a indicare almeno un po’ di volontà di riscatto.

Troppo poco. Guardando in su dai piedi dell’alto piedistallo, quando il monumento fu eretto in pubblico, questi dettagli sparivano (e spariscono) alla vista. Il messaggio su chi stesse sopra e chi stesse sotto, su chi agisse e chi fosse agito, era chiaro. E non era di buon auspicio per l’eguaglianza razziale nell’America post-bellica, in tutta l’America, non solo nel Sud avviato verso la segregazione.

E tuttavia, malgrado tutto, a Frederick Douglass sembrò opportuno onorarlo quel monumento, e offrì buoni motivi per farlo, e forse li offre anche a noi, chissà. Ci vuole un testimone per conoscere il suo commento critico, perché si trattò di una improvvisazione fuori testo, non è riportata nella versione ufficiale del discorso. Ciò non sembra indicare una sua qualche timidezza. Il discorso ufficiale è già molto disincantato. Naturalmente dice tutto quello che c’è da dire in simili occasioni, omaggi e ringraziamenti, con lo stile ornatissimo della grande oratoria ottocentesca. E ricorda le novità. Che solo vent’anni prima una cerimonia del genere, nella capitale allora schiavista, sarebbe stata impensabile. E che è la prima volta in cui “we, the colored people” onoriamo il carattere e le opere di un grande americano bianco – “nostro amico e liberatore”.

Ma niente illusioni. Douglass onora Lincoln ma non dimentica e non tace nulla, in effetti è spietato nel ricordare e nel non tacere.

Riecheggiando la struttura retorica della sua famosa orazione per il Quattro di luglio (vedi un mio vecchio post qui) di qualche anno prima, Douglass riconosce la frattura razziale che certo non è superata, riconosce la linea del colore. Distingue fra noi e loro, fra il “noi” razza di colore e il “voi” del pubblico presente in prevalenza bianco. E sottolinea: attenzione, Lincoln è cosa vostra, non nostra, voi siete i suoi figli, noi siamo al massimo i figli adottivi, adottati per forza. Tocca a voi celebrarlo in primo luogo. Lincoln è un uomo bianco con i pregiudizi dei bianchi e ha fatto le cose per voi, per l’America bianca. Ma così facendo ha dato una mano anche a noi, ci è servito per ottenere un nostro risultato storico. E quindi è bene anche per noi celebrarlo, anche se non è “nel senso più pieno della parola, né il nostro uomo né il nostro modello”.

E’ bene celebrarlo per almeno due ragioni, dice Douglass. La prima è che, malgrado tutte le sue lentezze e reticenze (e le nomina tutte, una per una), e i suoi pregiudizi da bianco, ha avuto il carattere e le virtù utili e necessarie per essere la persona giusta nel posto giusto al momento giusto. E’ stato colui che, sia pure per circostanze storiche e necessità, ma appunto sfruttando al meglio (per lui e per noi) necessità e occasioni storiche, dicendo di voler abolire la schiavitù non come obiettivo in sé ma al fine di salvare l’unione, ha convinto un paese riluttante a mettere fine alla schiavitù. E l’avevamo ben capito nel cuore della guerra, dice il militante abolizionista e a suo tempo interlocutore del presidente: “Eravamo giunti alla conclusione che l’ora e l’uomo della nostra redenzione si erano in qualche modo incontrati nella persona di Abraham Lincoln”.

L’ora e l’uomo del destino? Ma anche il leader sapiente e spregiudicato.

La seconda ragione è infatti questa: che proprio i suoi pregiudizi razziali in sintonia con quelli della stragrande maggioranza degli americani bianchi, siano stati una benedizione. Siano stati un elemento del suo successo nell’affrontare la terribile guerra e nel condurla fino alla fine. Se fosse stato o si fosse presentato come un amico della gente di colore, se avesse messo al primo posto l’obiettivo di abolire la schiavitù, sarebbe stato abbandonato da molti suoi compatrioti, tiepidi o contrari a battersi per la causa. Dice Douglass: “Visto da un punto di vista genuinamente abolizionista, Lincoln  sembrava lento, sordo, indifferente; ma misurandolo sulla base dei sentimenti del paese, sentimenti di cui da statista era obbligato a tener conto, fu veloce, zelante, radicale e determinato”.

Un capolavoro politico quello di Lincoln, insomma. E un capolavoro di ragionamento, giudizio e contestualizzazione storica quello di Douglass, a pochi anni dagli eventi, ancora caldissimi. In una orazione pubblica, fra l’altro, non in un saggio per pochi studiosi. E in una orazione pubblica di fronte a tutto intero l’establishment bianco, come raramente è accaduto a un leader nero.

Douglass lì, in quel monumento, la libertà ce la vede. E non perché sia cieco al resto ma perché, da attore protagonista, apprezza le incertezze e le ironie della storia, e le complicatezze della vita. Magari, a più di un secolo e mezzo di distanza, da parte di chi vive altre vite, queste cose è più difficile apprezzarle.

Qui sotto traduco alcuni stralci dell’orazione, il testo completo l’ho trovato qui.

Devo ammetterlo, la verità mi obbliga ad ammeterlo, persino qui in presenza del monumento che abbiamo eretto alla sua memoria, Abraham Lincoln non era, nel senso più pieno della parola, né il nostro uomo né il nostro modello. Nei suoi interessi, nelle sue frequentazioni, nei suoi modi di pensare, e nei suoi pregiudizi, era un uomo bianco.

Era preemintemente il presidente dell’uomo bianco, interamente devoto al bene degli uomini bianchi. Nei primi anni della sua amministrazione era sempre pronto e disponibile a negare, posporre e sacrificare i diritti dell’umanità della gente di colore per promuovere il bene del popolo bianco del paese. In tutta la sua formazione e nei suoi sentimenti era il più americano degli americani. Arrivò alla carica presidenziale sulla base di un solo principio, e cioè l’opposizione all’estensione della schiavitù. Le sue ragioni per perseguire questa politica derivavano dalla devozione patriottica agli interessi della sua razza. Per proteggere, difendere e perpetuare la schiavitù negli stati dove esisteva, Abraham Lincoln era pronto a levare la spada della nazione non meno di ogni altro presidente. Era pronto a fare valere tutte le presunte garanzie della Costituzione degli Stati Uniti a favore del sistema schiavile all’interno degli stati schiavisti. Era disposto a dare la caccia, catturare e restituire al padrone gli schiavi fuggitivi, e a sopprimerne la ricerca della libertà, anche quando il colpevole padrone era già in armi contro il governo legittimo. La razza alla quale apparteniamo non era per lui speciale oggetto di considerazione. Sapendo questo, o miei concittadini bianchi – riconosco a voi un preminenza piena e suprema nel rendergli oggi gli onori.

Dall’inizio alla fine, voi e i vostri siete stati l’oggetto del suo affetto più profondo e della sua più sincera sollecitudine . Voi siete i figli di Abraham Lincoln. Noi siamo al massimo solo i figliastri; figli adottivi, figli per forza di circostanze e necessità. A voi specialmente pertiene cantarne le lodi, preservarne e perpetuarne la memoria, moltiplicare le sue statue, appendere al muro i suoi ritratti, elogiarne l’esempio, perché per voi egli è stato un grande e glorioso amico e benefattore. […] Ma mentre fate tutto questo nell’abbondanza della vostra ricchezza, e nella pienezza della vostra giusta e patriottica devozione, vi imploriamo di non disprezzare l’umile offerta che in questo giorno siamo qui a inaugurare; perché mentre Abraham Lincoln ha salvato per voi un paese, egli ci ha liberato da una schiavitù un’ora della quale, secondo Thomas Jefferson, era peggiore di tutte le ere di oppressione contro cui si sono sollevati in ribellione i vostri padri.

[Spesso Lincoln non ha corrisposto ai nostri desideri, anzi ci ha contrariato, e tuttavia malgrado tutto abbiamo visto e capito]. Eravamo giunti alla conclusione che l’ora e l’uomo della nostra redenzione si erano in qualche modo incontrati nella persona di Abraham Lincoln. Ci importava poco quale linguaggio potesse impiegare in alcune occasioni specifiche; ci importava poco, quando lo conoscemmo bene, se fosse rapido o lento nei movimenti; ci bastava che Abraham Lincoln fosse alla testa di un grande movimento, e fosse in profonda e sincera simpatia con quel movimento che, nella natura delle cose, doveva procedere finché la schiavitù non fosse completamente e per sempre abolita negli Stati Uniti.

E quindi, quando ci sarà chiesto che cosa abbiamo a che fare con la memoria di Abraham Lincoln, o che cosa Abraham Lincoln abbia a che fare con noi, la risposta è pronta, piena e completa.Per quanto amasse Cesare meno di Roma, per quanto tenesse di più all’Unione che alla nostra libertà o al nostro futuro, sotto il suo saggio e benefico governo ci siamo gradualmente sollevati dagli abissi della schiavitù alle vette della libertà e dell’umanità; […] sotto il suo governo, e al momento opportuno, non appena l’intero paese poté tollerare lo strano spettacolo, abbiamo visto i nostri coraggiosi figli e fratelli togliersi di dosso gli stracci della schiavitù e rivestirsi dell’uniforme blu dei soldati degli Stati Uniti; sotto il suo governo, abbiamo visto duecentomila di loro rispondere alla chiamata di Abraham Lincoln e, moschetti in spalla, e aquile sui bottoni, marciare all’unisono verso la libertà e l’unione sotto la bandiera nazionale; […] sotto il suo governo, assistito dal più grande capitano della nostra epoca, e su sua ispirazione, abbiamo visto gli Stati Confederati, fondati sull’idea che la nostra razza deve essere schiava, e schiava per sempre, fatta a pezzi e dispersa ai quattro venti; sotto il suo governo abbiamo visto Abraham Lincoln […] scrivere il documento immortale che, sebbene speciale nel linguaggio, era generale nei principi e negli effetti, rendendo la schiavitù per sempre impossibile negli Stati Uniti. Abbiamo aspettato a lungo, ma abbiamo visto tutto questo e altro ancora.

[…] Ho detto che il presidente Lincoln era un bianco e condivideva i pregiudizi comuni ai suoi connazionali nei confronti della razza di colore. Guardando indietro ai suoi tempi e alla condizione del paese, dobbiamo ammettere che questi sentimenti non amichevoli da parte sua possano ben essere considerati un elemento del suo straodinario successo nell’organizzare e mantenere la lealtà del popolo americano di fronte e attraverso il tremendo conflitto. La sua grande missione consisteva nel realizzare due cose: primo, salvare il paese dallo smembramento e dalla rovina; secondo, liberare il paese dal grande crimine della schiavitù. Per fare l’una o l’altra cosa, o entrambe, doveva avere la sincera simpatia e l’assoluta e leale collaborazione dei connazionali. Senza questa condizione elementare ed essenziale, i suoi sforzi sarebbero stati vani e del tutto infruttuosi. Se avesse privilegiato l’abolizione della schiavitù sulla salvezza dell’Unione, avrebbe inevitabilmente allontanato da sé una parte importante del popolo americano e reso impossibile la resistenza alla ribellione. Visto da un punto di vista genuinamente abolizionista, Lincoln sembrava lento, sordo, indifferente; ma misurandolo sulla base dei sentimenti del paese, sentimenti di cui da statista era obbligato a tener conto, fu veloce, zelante, radicale e determinato.

Categorie:Guerra civile, schiavitù

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