Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Che cos’è, per lo schiavo, il Quattro di luglio?

frederick-douglass-1852-600x395_cUna delle più celebri orazioni sul giorno dell’indipendenza, una delle migliori orazioni del secolo dell’orazione, l’Ottocento, una delle più appassionate orazioni del grande oratore afro-americano Frederick Douglass – è questa comunemente intitolata What, to the American slave, is your 4th of July? cioè, che cos’è il vostro Quattro di luglio per lo schiavo americano? E mai come quest’anno è giusto ricordarla.

L’ex schiavo ora eminente leader anti-schiavista, Douglass la pronuncia il 5 luglio 1852 di fronte alla Ladies’ Anti-Slavery Society of Rochester, nell’upstate New York. Di fronte a un pubblico bianco, dunque, ma convertito. Le signore bianche di Rochester erano parte del movimento abolizionista, così come Douglass era parte del movimento per il suffragio femminile che era nato pochi anni prima proprio lì vicino, a Seneca Falls, nel 1848. I due movimenti erano intrecciati.

La pronuncia, l’orazione, il 5 di luglio, non il Quattro. Un po’ per caso. Quell’anno Independence Day cadeva di domenica e quindi si faceva festa il lunedì. Ma un po’ anche per una abitudine afro-americana che celebrava il gran giorno in maniera separata, il giorno dopo. A volte i bianchi non volevano mescolarsi con i neri nel Glorious Fourth. Ma anche i neri non gradivano, per ragioni – be’, per ragioni che spiega bene Douglass.

Cittadini, scusatemi, permettetemi di chiedere: perché sono chiamato a parlare qui oggi? Cosa ho a che fare io, o coloro che io rappresento, con la vostra indipendenza nazionale? Quei grandi principi di libertà politica e di giustizia naturale, incarnati in quella Dichiarazione d’Indipendenza, sono forse estesi anche a noi?

Lo dico con un triste senso di disparità fra noi. Io non sono incluso nel confine di questo glorioso anniversario! La vostra alta indipendenza rivela solo l’incommensurabile distanza fra di noi. Le benedizioni di cui voi oggi gioite non sono godute da tutti. La ricca eredità di giustizia, libertà, prosperità e indipendenza, trasmessa dai vostri padri, è condivisa da voi, non da me.

Questo quattro di luglio è vostro, non mio. Voi potete gioire, io devo portare il lutto. Trascinare un uomo in ceppi nel magnifico tempio illuminato della libertà, e chiamarlo a unirsi a voi in inni di gioia, è stato un atto di scherno disumano e di sacrilega ironia. Intendete, cittadini, deridermi, chiedendomi di parlare oggi?

Concittadini, al di sopra della vostra tumultuosa gioia nazionale, io sento il gemito luttuoso di milioni di uomini! Le cui catene, pesanti e gravose ieri, sono oggi rese ancora più intollerabili dalle grida giubilanti che li raggiungono.

Che cos’è, per lo schiavo americano, il vostro quattro di luglio? Io rispondo: un giorno che gli rivela, più di tutti gli altri giorni dell’anno, la rozza ingiustizia e la crudeltà di cui egli è continuamente vittima. Per lui, la vostra festa è una mistificazione; la libertà di cui vi vantate, un arbitrio profano; la vostra grandezza nazionale, gonfia vanità; i vostri suoni di gioia risuonano vuoti e senza cuore; le vostre denunce contro i tiranni sono sfacciata impudenza; le vostre grida di libertà e uguaglianza, scherno senza contenuto; le vostre preghiere e inni, i vostri sermoni e ringraziamenti, con tutte le vostre solenni parate religiose, sono, per lui, nient’altro che magniloquenza, frode, inganno, empietà, e ipocrisia – un velo sottile per coprire crimini che getterebbero disonore su una nazione di selvaggi. In questo preciso momento, non c’è una nazione sulla terra colpevole di usanze più sconvolgenti e sanguinose di quanto non sia il popolo di questi Stati Uniti.

Al giorno d’oggi c’è bisogno di ironia graffiante, non di argomentazioni convincenti. Oh! Ne avessi la capacità, e potessi raggiungere l’orecchio della nazione, verserei, oggi, un ardente torrente di pungente ridicolo, di rimprovero squillante, di sarcasmo fulminante, e di duro biasimo. Perché non è di luce che abbiamo bisogno, ma di fuoco; e non della pioggia gentile, ma del tuono. Abbiamo bisogno della tempesta, del turbine, del terremoto. Il sentimento della nazione va stimolato; la coscienza della nazione va risvegliata; le convenienze sociali della nazione vanno messe in allarme; l’ipocrisia della nazione va smascherata; e i suoi crimini contro Dio e gli uomini debbono essere proclamati e denunciati.

Ma Douglass non era solo un predicatore, un critico radicale, un agitatore. E’ anche un politico consumato, vuole anche convincere, allargare il discorso, includere, portare a casa il risultato. (Non lì alla Ladies’ Anti-Slavery Society di Rochester dove, come si suol dire, predica al coro. Ma fuori di lì, certamente.) Dopo l’aspra denuncia, come andare avanti? Ma proprio facendo appello agli stessi principi americani che si festeggiano ipocritamente quel giorno. Ai “grandi principi di libertà politica e di giustizia naturale” della Dichiarazione d’Indipendenza. Alla stessa Costituzione “calpestata” – che invece, dice Douglass, “interpretata così come dovrebbe essere interpretata, è un glorioso documento di libertà”.

Principi traditi, nei confronti dei quali l’America presente è “falsa”. Ma principi che non sono solo vostri – bensì di tutti, e che devono essere recuperati e applicati a favore di tutti. E in questo Douglass è tutto dentro la grande tradizione della geremiade americana, la lamentazione rituale della “vera” America come promessa non mantenuta – che deve essere finalmente riscatta con i suoi stessi strumenti.

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Il testo originale completo in inglese è in vari luoghi online, per esempio qui, presso il Frederick Douglass Project della University of Rochester. Alcuni passi sono letti da James Earl Jones in questo video. La traduzione italiana, con qualche minima variazione, è quella in Frederick Douglass, L’indipendenza e la schiavitù, con introduzione di Alessandro Portelli, ManifestoLibri, 1995.

Categorie:Cultura politica, schiavitù

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