Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Gli ex schiavi dopo la Guerra civile: il monumento che non c’è

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The Freedman, 1863, by John Quincy Adams Ward (1830-1910), bronze, 50 x 40 x 24 cm, Amon Carter Museum of American Art, Fort Worth, Texas

Nel 1863 lo scultore bianco John Quincy Adams Ward (1830-1910) presentò in alcune mostre newyorkesi prima un modello in gesso e poi una statuetta in bronzo con il titolo di The Freedman: uno schiavo nero che si libera delle manette e delle catene. Era la reazione dell’artista, allora poco conosciuto ma che avrà una lunga e prestigiosa carriera (è suo il grande George Washington in bronzo a Wall Street, o il frontone in marmo del New York Stock Exchange), al Proclama di emancipazione di Abraham Lincoln. La statuetta fece sensazione e per qualche anno suscitò l’interesse di critici e commentatori, mentre il pubblico generale ebbe poche occasioni di vederla. Di dimensioni ridotte, non più alta di 50 centimetri, la statuetta mantenne una sua dimensione da camera. Non diventò mai un monumento, come invece qualcuno suggerì. Il suo modo di rappresentare gli ex schiavi, come agenti della loro liberazione e non come passivi ricettori della generosità altrui, non riuscì a sfondare nella pubblica piazza. Qualcosa del genere accadde solo più di trent’anni dopo con il monumento al 54th Massachusetts Infantry Volunteer Regiment, il reggimento di soldati colored, inaugurato a Boston nel 1897 (di cui racconto qui).

The Freedman restò un’opera privata. Entro la fine del secolo ne furono fuse 6 copie, ora nei musei ma all’inizio di proprietà di varie famiglie. La copia nella fotografia qui sopra, per esempio, fu acquisita dal Carter Museum of American Art di Fort Worth, Texas, nel 2001. Era appartenuta a Zelma Watson George (1903-1994), una figura straordinaria di filantropa e leader civica afro-americana, musicologa e cantante lirica (con Gian Carlo Menotti), consigliera di presidenti e diplomatica all’Onu, esponente illustre della black bourgeoisie dell’Ohio e del Midwest. Non è chiaro come sia giunta nella sua collezione. Questa copia, fra l’altro, sembra avere un peculiarità rispetto ad altre. L’ex schiavo tiene nella mano destra una vera manetta aperta e realmente funzionante, con una chiave al seguito. E sulla manetta è inciso un tributo proprio ai Massachusetts Volunteers, stabilendo così un legame di memoria con lo stesso evento che ispirò il più tardo monumento ai soldati neri a cui ho accennato nel capoverso precedente.

La statuetta fece sensazione per le sue qualità artistiche, ma anche perché mostrava un approccio inusuale per un artista bianco che si rivolgeva a un pubblico bianco. Rappresenta un uomo seduto su un tronco d’albero, con ai polsi delle manette rotte. Un africano, con tratti fisionomici ben marcati. Uno schiavo che non è più uno schiavo. Uno dei tanti schiavi del Sud che, come sperava Lincoln con il suo proclama, si sarebbero liberati fuggendo al Nord. Il corpo è seminudo, un po’ troppo classicamente perfetto, muscolare, integro, per essere una rappresentazione naturalista; non mostra le cicatrici che in genere gli schiavi si portavano addosso. La figura raccolta su se stessa ricorda l’immagine iconica degli abolizionisti, quella del maschio nero inginocchiato a terra e in catene, che implora “Non sono anch’io un uomo e un fratello?”. E tuttavia di quell’immagine The Freedman è lo sviluppo dinamico e infine la negazione. L’uomo si è alzato da terra, non implora, non chiede, ha rotto le catene, guarda lontano con determinazione, non aspetta la salvezza da altri, dall’alto, è deciso a prendersela.

 

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La postura suggerisce un messaggio di liberazione, di incertezza, di attesa. L’uomo non è più inginocchiato a terra come uno schiavo che implora – ma neanche sta eretto, in piedi, come starebbe un eroe classico trionfante. E’ sospeso in una posizione intermedia fra il riposo e l’azione, che è tuttavia piena di energia, di possibilità. I muscoli, le vene sono in tensione e in bella evidenza sulla pelle nuda (la seminudità classicheggiante serve anche a evidenziare questo). E’ seduto ma sta per alzarsi, comunica la sensazione di anticipare qualcosa. Non si sa cosa stia pensando, ma chiaramente sta pensando, facendo dei progetti. E’ una molla contratta pronta a saltare (che sia anche una minaccia?). Vive in effetti nell’incertezza fra schiavitù e libertà. Ha rotto le manette ma le ha ancora ai polsi. Davvero l’emancipazione funzionerà? E la guerra, come andrà a finire? Nel 1863 c’erano ancora varie opzioni aperte, per lui e naturalmente per lo scultore e cittadino Ward e per l’America tutta.

Il quale Ward non era contento neanche del suo titolo, The Freedman, che implica l’uomo liberato [freed], agito da qualcun altro – che è esattamente il senso che non voleva dare al suo lavoro. Lo scrisse in una lettera del 2 aprile 1863 alla National Academy of Design di New York, in occasione della sua prima mostra:

“Manderò domani o dopodomani un modello in gesso di una figura che noi chiamiamo The Freedman per mancanza di un nome migliore, ma che io intendevo esprimesse un uomo reso libero non tanto da un qualsiasi proclama quanto dal suo stesso amore per la libertà e proiettasse una potenza consapevole di rompere le cose – la lotta non è ancora finita per lui (come non lo è mai in questa vita) e tuttavia ho cercato di esprimere un barlume di speranza nella sua impresa”.

Era la prima rappresentazione di un afro-americano in bronzo negli Stati Uniti. Il passaggio dall’usuale marmo statuario bianco al bruno del bronzo segnalava anche un passaggio politico al colore. Parecchi osservatori suggerirono subito che una figura del genere dovesse diventare un monumento pubblico, ingrandita a dimensioni standard, o anche oversize, a celebrare in maniera permanente la nuova epoca di libertà. Lo scrittore William Dean Howells la indicò come il simbolo ideale per commemorare le gesta dei soldati nei war memorials che si stavano moltiplicando del paese, invece di bassorilievi di battaglie e statue di generali. Qualcuno propose di metterla accanto al George Washington marmoreo di Horatio Greenough che ancora si trovava nel Campidoglio della capitale – nudità maschile nera accanto a nudità maschile bianca (quella del padre della patria, oddio!). Tuttavia nulla di ciò accadde. La statuetta non divenne un nuovo modello o esempio di statuaria pubblica in cui i nuovi concittadini di colore fossero rappresentati come dotati di una capacità indipendente di agire. L’emancipazione entrò nella monumentalità in altro modo, tramite il corpo del Grande Emancipatore bianco, Lincoln. Accanto a lui i corpi neri continuarono a essere passivi, ricettivi di libertà, e inginocchiati, riconoscenti.

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Emancipation Memorial, 1876 (a.k.a. Freedmen’s Memorial to Abraham Lincoln), by Thomas Ball, life-size bronze, Lincoln Park, Washington, D.C. (National Park Service)

Sembra che ci sia una sola opera di quegli stessi anni che, per concezione, possa essere paragonata a The Freedman. Ma ancora più rara e privata, ancora più eccezionale. E cioè il gruppo marmoreo, anch’esso di dimensioni ridotte, formato da un uomo e una donna e intitolato Forever Free, del 1867. Del tutto eccezionale era l’autore, la scultrice afro-americana Mary Edmonia Lewis (1844-1907): una donna di colore dunque, di padre afro-haitiano e madre Native American, che lavorò a lungo a Roma nella comunità degli artisti expat, in effetti l’unica persona afro-americana che, nella seconda metà dell’Ottocento, conquistasse notorietà e fama nel campo della scultura. Ed era rara l’opera. L’uomo, seminudo come quello di Ward, e come quello ancora con i segni delle catene, è finalmente in piedi, del tutto eretto. La donna invece, completamente vestita, è inginocchiata e implorante proprio come nell’altra immagine iconica del movimento abolizionista, quella femminile: “Non sono anch’io una donna e una sorella?”; a differenza di quella, tuttavia, non ha marcati caratteri razziali, con i suoi capelli fluenti potrebbe passare per bianca. L’opera, ai miei occhi molto meno potente di quella di Ward, era destinata a committenti abolizionisti di Boston. E rimase poco nota al di fuori del loro giro, per quel che se ne sa mai riprodotta o pubblicamente esibita.

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Forever Free / Morning of Liberty, 1867, by Mary Edmonia Lewis (1844-1907), marble, 105 x 56 x 43 cm, Howard University Gallery of Art, Washington, D.C.

Categorie:schiavitù

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