E’ solo una piccola storia personale, una storia di un Thanksgiving di una quarantina d’anni fa, una storia degli anni 1970s.
Sono invitato dai genitori di un amico per il pranzo cerimoniale. A Davenport, Iowa, una città che è parte di un’area metropolitana che si estende anche sull’altra riva del Mississippi, in Illinois, a Moline e Rock Island. Un triangolo industriale e operaio (avete presente i trattori John Deere?) allora investito dalla crisi, ora forse in ripresa, ma non lo so, è davvero tanto che non ci metto piede.
(Fra l’altro allora in Iowa o almeno in quella contea, di domenica non si vendevano alcolici, per cui attraversiamo il fiume, andiamo in Illinois a comprare del vino.)
I genitori sono working-class cresciuti negli anni 1930s. La madre è infermiera, racconta storie di Bonnie & Clyde, non è come al cinema, dice. Il padre è meccanico in una piccola officina, il suo sweatshop dice, ma con affetto, e racconta storie di scioperi e sindacati.
Al momento di sederci a tavola il pater familias alza un dito, come a voler annunciare qualcosa.
Già, la preghiera, penso.
Invece no, o forse a suo modo sì.
“Non so come la pensi tu, giovanotto”, dice rivolto proprio a me. “Ma prima di cominciare voglio dirti una cosa, in questa casa noi siamo Democratici”.
Le stesse parole che usava mio nonno ferroviere, per evitare inutili litigate di politica a tavola con gli invitati per qualche festa. Solo che lui concludeva “in questa casa noi siamo socialisti” – o “comunisti”, secondo come gli girava quel giorno.
(I partiti o gli ideali non sono più quelli di una volta? Chissà.)
(Comunque sembra che le discussioni politiche, anche accese, anche che degenerano in liti, siano abbastanza frequenti al pranzo di Thanksgiving, anzi che ne siano lo spauracchio per chi vorrebbe mantenere, almeno in questo santo giorno, la pace in famiglia. Fra parenti vicini e lontani, che magari si conoscono appena, che si vedono solo una volta l’anno, che nel frattempo son diventati trumpiani o sanderistas.)
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