Dunque Obama ha chiesto l’autorizzazione del Congresso, prima dell’azione militare in Siria. Lo fa, ha detto, perché è consapevole di essere il presidente della “più vecchia democrazia costituzionale del mondo” e perché il popolo americano è “stanco di guerre” – e quindi c’è bisogno che le ragioni dell’uso della forza (per quanto “limitato in durata e portata”) siano discusse in pubblico e, appunto, condivise dalla istituzioni rappresentative del paese. E tuttavia, quella che cerca, non sembra essere una autorizzazione necessaria, dovuta. E’ presentata piuttosto come una sua libera decisione, una scelta di opportunità politica. Anzi, dice: “Credo di avere l’autorità per condurre questa azione militare senza una specifica autorizzazione congressuale”. Anche i membri del Congresso confermano questa idea, alcuni lo ringraziano di averli convocati. Non si sentono investiti di un compito istituzionale – che magari richieda il dovere della loro iniziativa autonoma, senza aspettare il Presidente.
Ora, nell’ordine generale delle cose, tutto ciò ha probabilmente poca importanza. E tuttavia, a me pare che la questione meriti qualche approfondimento. Non sono un costituzionalista, e immagino che molti nessi giuridici mi sfuggano. Non ho fatto ricerca sulle intenzioni dei padri costituenti del 1787 o dei legislatori successivi. Ho solo provato a leggere con attenzione un paio di testi rilevanti, con scarsa soddisfazione finale, e un senso di confusione. Quello che emerge è l’ambiguità delle parole, anche di quelle che vogliono chiarire il significato di altre parole. La Costituzione degli Stati Uniti riserva l’autorità di “dichiarare guerra” al potere legislativo, non all’esecutivo. Questo è chiaro. Ma poiché, come ho ricordato in un post precedente, il termine “guerra” si è prestato a troppe interpretazioni, dopo l’esperienza del Vietnam (una guerra mai dichiarata), la War Powers Resolution del 1973 ha cercato di rimediare – per imbrigliare le sconsideratezze trigger-happy dell’esecutivo. C’è riuscita davvero?
La War Powers Resolution, malgrado il nome, è una legge a tutti gli effetti. Votata da Camera e Senato e poi ri-votata contro il veto del Presidente Nixon, quindi approvata dai due terzi dei deputati e dei senatori, è entrata nel Codice degli Stati Uniti, Titolo 50, Capitolo 33. E ha un linguaggio che, di nuovo malgrado il nome, non parla solo di “guerra”. Anzi, riguarda e regola, o pretende di regolare, qualunque attività che coinvolga le truppe americane in “hostilities”, in situazioni di ostilità dispiegate o potenzialmente tali. Compreso l’invio di forze armate “nel territorio, nello spazio aereo o marittimo di un paese straniero, in assetto di combattimento” (insomma, raid aerei). E compreso l’impiego di loro membri “per comandare, coordinare, partecipare” nelle azioni di forze militari “regolari o irregolari” di altri governi o paesi in situazioni di conflitto o di minaccia imminente di conflitto (insomma, addestratori e “consiglieri” sul terreno).
Fin qui ci siamo. Chi ha dunque l’autorità di impegnare le truppe in ogni tipo di “hostilities”? Il nostro scopo, scrivono i legislatori, è realizzare l’intento dei padri costituenti di assicurare che ciò avvenga con “the collective judgement of both the Congress and the President” (l’enfasi di tutti i corsivi è mia). Il Presidente in quanto Commander-in-Chief può farlo “solo sulla base di (1) una dichiarazione di guerra, (2) una specifica autorizzazione legale o (3) una emergenza nazionale creata da un attacco contro gli Stati Uniti, i suoi territori o possedimenti, o le sue forze armate”. E infine: “The President in every possible instance shall consult with Congress before introducing United States Armed Forces into hostilities”. Nel linguaggio formale, elevato, della legge, shall non indica futuro – ma piuttosto un ordine, un comando, una istruzione: “Il Presidente in ogni circostanza possibile dovrà consultarsi con il Congresso prima di inviare…”
Qui cominciano le ambiguità. Che cosa significa “collective judgement”? E “consultarsi”? Cioè, gli effetti di giudizi o consultazioni sono vincolanti per il Presidente? Dovrebbero, visto che può agire solo con l’autorizzazione del Congresso. Ma quando deve avere l’autorizzazione? Sembra facile, c’è scritto: prima di agire. Ma ciò deve avvenire “in ogni circostanza possibile” – quindi non sempre? Certo non in seguito un attacco nemico, quando la risposta è di necessità immediata. E in altre circostanze? Non c’è, nella War Powers Resolution, una risposta precisa. Quando entra nei dettagli procedurali, la legge regola solo il caso in cui, “in assenza di una dichiarazione di guerra”, il Presidente agisca per conto suo: deve allora comunicare l’inizio dell’azione al Congresso entro 48 ore e chiederne e averne l’autorizzazione a posteriori. Quindi: al di fuori della procedura standard (la cara, vecchia, obsoleta dichiarazione di guerra), basterebbe il consenso a fatto compiuto? Fra l’altro solo in quest’ultimo caso è prevista l’iniziativa del Congresso: se il presidente non è autorizzato, il Congresso può imporgli il ritiro delle truppe “in qualunque momento”. Prima, l’iniziativa è tutta del presidente.
Null’altro si dice in proposito. Forse sono queste ambiguità che consentono a Obama di sostenere di avere comunque il potere di agire senza autorizzazione preventiva. Andando contro quello che egli stesso aveva detto con nettezza quando era solo un aspirante candidato presidenziale (ed ex-professore di diritto costituzionale), in una intervista del 2007: “Il Presidente non ha, secondo la Costituzione, il potere di autorizzare un attacco militare se non in risposta a una minaccia concreta o imminente alla nazione.” In ogni caso, nelle circostanze difficili di questi giorni, in gran parte di sua fattura, ha poi deciso di aderire al suo monito di allora: “la storia ci ha mostrato più volte che l’azione militare ha molto più successo quando è autorizzata e sostenuta dal potere legislativo. E’ sempre preferibile avere il consenso informato del Congresso prima di intraprendere una qualsiasi azione militare”.
Qualunque siano le ragioni della sua decisione (e le ondivaghe incertezze con cui è arrivato a prenderla), essa può di per sé costituire una interpretazione della legge e della pratica politica presidenziale – cioè fondare un precedente. Sarà possibile, in futuro, per lui o altri inquilini della Casa bianca, intraprendere azioni militari, anche limitate, senza passare per il Congresso? Fin’ora Obama stesso e altri presidenti l’hanno fatto, senza pagare pegno. Obama potrebbe aver invertito una tendenza nell’equilibrio dei poteri costituzionali, restituendo responsabilità al potere legislativo e riducendo le prerogative della “presidenza imperiale”. Per alcuni ciò è un male, perché toglie libertà d’azione agli Stati Uniti come superpotenza mondiale, in un mondo pericoloso. Per altri è un bene, anzi, forse si dimostrerà una delle principali eredità positive della sua presidenza. Potrebbe anche essere, soprattutto se il Congresso votasse no, o un sì numericamente e politicamente stentato – un ulteriore contributo alla confusione e alla paralisi istituzionale? Magari il Congresso farà una nuova risoluzione, per chiarire quella del 1973.
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