Fra le cose che Obama ha detto nella conferenza stampa finale a San Pietroburgo, venerdì 6 settembre, rispondendo alle domande dei giornalisti, ce ne sono tre che vorrei commentare. Cito dalla trascrizione ufficiale pubblicata sul blog della Casa bianca.
La prima affermazione riguarda le motivazioni generali dell’interventismo americano. Dice il presidente: “Se ci limitiamo a fare un’altra dichiarazione di condanna, o a passare una risoluzione che dice ‘quanto è terribile tutto ciò’, se quelli che denunciano l’inerzia internazionale in Rwanda e dicono quant’è terribile che ci siano nel mondo queste violazioni dei diritti umani, e perché non facciamo qualcosa – e guardano sempre agli Stati Uniti – perché gli Stati Uniti non fanno qualcosa, la nazione più potente della terra? Perché si consente che accadano queste cose terribili? E poi, se la comunità internazionale fa dietrofront quando diciamo che è tempo di assumersi delle responsabilità e dice, bene, aspetta un attimo, non siamo sicuri – ciò erode la nostra capacità di sostenere il tipo di norme che ci stanno a cuore”.
A parte l’ovvia frustrazione del presidente, è il riferimento al Rwanda che è significativo. Il disinteresse del mondo per il massacro della popolazione civile, per il genocidio avvenuto in quel paese africano nel 1994, sotto gli occhi di tutti, ha plasmato una parte dei consiglieri di politica estera del presidente. In particolare ha segnato la formazione di Samantha Power, quando era una giornalista che seguiva, negli stessi anni 1990s, le guerre civili nella ex-Yugoslavia. Nel suo celebre libro, A Problem from Hell: America and the Age of Genocide (2002), Power ripercorre la storia dei genocidi del Novecento e denuncia la riluttanza internazionale, americana in particolare, a fare qualcosa per impedirli. Power è sempre stata vicina a Obama, e da un mese è la sua ambasciatrice all’Onu. E’ una delle più influenti sostenitrici dell’interventismo umanitario e dell’intervento in Siria – per ragioni, dice, di “sicurezza” e di “coscienza”.
La seconda affermazione riguarda l’uso delle armi chimiche, la fondatezza dell’accusa. Dice Obama: “we now say with some confidence that at a small level Assad has used chemical weapons.” With some confidence? Non ne sono del tutto1 sicuri? At a small level? Ai livelli inferiori della gerarchia di comando? Qualche riga dopo forse chiarisce un po’: “the guy, or at least generals under his charge”. Quindi, non Assad, ma qualche generale criminale? Il linguaggio presidenziale sembra confermare un sospetto che circola a Washington, anche se difficile da verificare. E cioè che l’amministrazione sappia una cosa che non dice con chiarezza, avendo manipolato un rapporto dell’intelligence israeliana. Secondo il rapporto originale, infatti, il governo siriano non c’entrerebbe niente con l’uso dei gas, e gli alti comandi del suo esercito sarebbero inviperiti con un ufficiale infedele che avrebbe agito contro gli ordini. Molti condizionali, mi raccomando.
La terza affermazione riguarda di nuovo la reazione americana. Ormai inevitabile? Dice Obama al giornalista del network conservatore Fox News: “Non muoio dalla voglia di avviare un’azione militare. Ricordati che nell’ultimo paio d’anni sono stato criticato per non essere intervenuto proprio da alcuni di quelli che ora dicono di opporsi all’intervento [cioè, per esempio, voi conservatori? Ndr]. E penso di avere la meritata reputazione di prendere molto sul serio e con moderazione l’idea di un impegno militare”. E ancora: “Ma voglio sottolineare che continuiamo a consultarci con i nostri partner internazionali. Do ascolto al Congresso. … E se ci sono buone idee che valga la pena perseguire sono disponibile a considerarle”. And if there are good ideas that are worth pursuing then I’m going to be open to it. Be’, qui il commento è breve e cauto. E’ questo un segnale di apertura a un ripensamento? Oppure sweet talk, imbonimento, propaganda?
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