La formazione degli Stati Uniti, Il Mulino, nuova edizione 2013, rivista, corretta (quasi niente) e allargata (un po’).
Due pagine nuove dalla prefazione alla nuova edizione
La formazione degli Stati Uniti narra un pezzo di una «storia nazionale» – un genere storiografico che guarda alla storia di un solo paese, rischiando di presentarla come una vicenda unitaria al suo interno, autonoma e separata dal resto del mondo, diversa e speciale rispetto a quella delle altre nazioni, magari da celebrare patriotticamente o da deprecare. In questo volume si è cercato di evitare questi rischi, approfittando dei contributi critici di tutte le subdiscipline della storiografia, la storia sociale e politica, intellettuale e istituzionale, economica e culturale, di razza e di genere, la storia transnazionale e atlantica, la world history. E dunque: la storia degli Stati Uniti è vista come tutt’altro che unitaria. E’ invece composta da una molteplicità di frammenti, di relazioni di autorità e potere, di soggetti distinti in competizione e conflitto fra loro. Che esistano elementi comuni che consentono la convivenza di queste molteplicità sullo stesso territorio, senza maltrattarsi fra loro più di quanto abbiano fatto (e lo hanno fatto parecchio), è un problema e non un dato scontato.
Inoltre: la storia degli Stati Uniti è vista come tutt’altro che separata dal resto del mondo. Vi è in effetti intrecciata in maniera inestricabile, essendo parte integrante dell’epoca delle rivoluzioni politiche e sociali, delle rivoluzioni industriali e capitalistiche, delle lotte per l’indipendenza e l’unità nazionale, dei movimenti liberali e democratici, delle migrazioni e delle frontiere, della schiavitù e della sua abolizione, in Europa, nelle Americhe, in Africa. Ancora: la storia degli Stati Uniti è vista come tutt’altro che diversa e speciale. E’ piuttosto il prodotto di una miscela di elementi che hanno plasmato tutte le esperienze nazionali di origine europea ed euro-coloniale; come in ciascuna di queste esperienze, la miscela è peculiare ma gli elementi sono comuni. La convinzione che la storia di una nazione abbia una essenza unica e un significato eccezionale nella storia universale è uno di questi elementi comuni; è una convinzione e una pretesa ideologica e culturale che appartiene a tutti i nazionalismi, compreso quello americano (nel Novecento si parlerà di «eccezionalismo americano»). E infine: la storia degli Stati Uniti, in quanto tale, è vista tutt’altro che in chiave celebrativa o, all’opposto, deprecatoria. E’ piuttosto una storia che, come quelle di tutti, ha i lati luminosi e i lati oscuri di una normale vicenda umana, complessa, sfuggente, laica e priva di finalità e di senso. Non ha alcun particolare significato da decodificare, alcuna vocazione da individuare, alcun messaggio da lanciare.
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La periodizzazione [dei primi cento anni di vita degli Stati Uniti], la loro suddivisione in epoche significative e distinte, e quindi, in questo volume, la loro organizzazione in capitoli, è scandita da alcune importanti cesure storiche – fasi di rottura, di cambiamento, di svolta. Dopo il capitolo I, che riassume a grandissime linee e in prospettiva secolare la formazione delle colonie britanniche in Nord America, la prima cesura è ovviamente costituita dalla Rivoluzione e dalla fondazione della repubblica federale, a cui è dedicato l’intero capitolo II. La seconda cesura è meno eclatante ma altrettanto cruciale. Consiste nella democratizzazione della repubblica bianca negli anni venti e trenta dell’Ottocento, e separa il capitolo III dal capitolo IV. La data del 1828, che fa da spartiacque fra i due capitoli e le due epoche, è approssimativa ma utile; assume l’elezione di un presidente come simbolo di un più ampio mutamento di sistema. La terza cesura, infine, è quella della Guerra civile, a cui è dedicato gran parte del capitolo V.
Nell’ambito di questo quadro generale, gli stili dell’esposizione nelle diverse parti del testo variano a seconda del tipo di temi trattati. Grandi eventi come la Rivoluzione e la Guerra civile, ma non solo questi, sono narrati con il linguaggio del racconto, che mette in risalto i tempi brevi e brevissimi del loro svolgimento (anni, mesi, giorni), le date precise di inizio e fine, le discontinuità drammatiche, le azioni degli individui, le decisioni, l’incertezza e imprevedibilità dei risultati, gli incidenti fortuiti. Il linguaggio dell’analisi strutturale è invece usato per descrivere le grandi trasformazioni sociali, economiche, culturali, politiche di più lungo periodo (decenni, anche secoli), in cui tratti di continuità e discontinuità si intersecano e sovrappongono, le scansioni cronologiche sono poco nette, le azioni degli individui sembrano scomparire in processi incontrollabili, anonimi, dotati di una irresistibile logica propria. Benché sia meno apparente, è opportuno ricordare che anche qui, ad agire, con percorsi spesso casuali, incerti e imprevedibili, sono esseri umani in carne e ossa e non forze astratte o provvidenziali. In alcuni casi, infine, il linguaggio argomentativo della discussione storiografica cerca di presentare la storia per quello che in effetti è, e cioè una serie di questioni aperte, di domande irrisolte, di ricerche sempre nuove.
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