Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Obama, America e Israele: le promesse della Terra Promessa

Moses_Viewing_the_Promised_Land_Frederic_Edwin_Church

Moses Viewing the Promised Land, by Frederic Edwin Church (1846)

Appena arrivato in Israele, il 20 marzo, il presidente Obama ha ricordato perché Israele e Stati Uniti sono paesi non solo alleati in nome di comuni interessi strategici, ma anche culturalmente e spiritualmente vicini: “perché condividiamo una stessa narrazione – patrioti decisi a ‘essere un popolo libero sulla nostra terra’, pionieri che hanno forgiato una nazione, […] e emigranti da ogni angolo del mondo che rinnovano costantemente le nostre diversificate società”. Ha poi ripetuto e specificato nell’importante discorso di fronte a una platea di giovani israeliani, il 21 marzo: la narrazione della storia del popolo ebraico non è solo vostra, è anche il paradigma della nostra storia, e ha valore universale.

“E’ una storia di secoli di schiavitù, e di anni di peregrinazioni nel deserto; una storia di perseveranza fra le persecuzioni, e di fede in Dio e nella Torah. E’ la storia di trovare infine la libertà nella vostra terra. […] Ma è anche una storia che contiene in sé l’esperienza umana universale, con tutte le sue sofferenze ma anche le sue redenzioni. E’ parte delle tre grandi religioni – giudaismo, cristianesimo, islam – che fanno risalire la loro origine a Abramo, e vedono Gerusalemme come sacra. Ed è una storia che ha ispirato intere comunità nel mondo, compreso me e i miei compatrioti americani. Negli Stati Uniti – una nazione di persone che hanno attraversato gli oceani per ricominciare da capo – siamo naturalmente attratti dall’idea di trovare la libertà nella nostra terra”.

Al di là della retorica presidenziale di cui Obama è maestro – è dunque la storia della Terra Promessa che accomuna i due popoli? La narrazione ricalcata sull’Esodo biblico, sul viaggio reale e metaforico, guidato da un Dio alleato, dall’esilio e dalle molte servitù straniere alla libertà in una casa fatta propria? E’ proprio così, rispondono Todd Gitlin e Liel Leibovitz in un libro di un paio di anni fa, The Chosen Peoples: America, Israel, and the Ordeals of Divine Election, che ci aiuta a comprendere questo linguaggio. I due popoli, americano ed ebraico, dicono Gitlin e Leibovitz, sono legati dall’idea condivisa che ciascuna delle loro nazioni sia stata scelta da Dio per una missione mondana; l’idea che ciascuno di essi sia un “popolo eletto”. Un’idea costruita storicamente che ha finito per plasmare la visione del mondo dei membri di entrambi i popoli, religiosi o laici, fanatici bigotti o seculatists dubbiosi che siano, e dei loro leader e governanti. Un’idea dinamica e potente che ha portato alla formazione (in epoche diverse, con approcci ideologici diversi) di due nazioni di immigrati e pionieri in terre del tutto nuove – o nuove rivendicate come ancestrali. Le terre nuove erano già abitate da altri, ma gli altri sono sembrati figli di un dio minore, “popoli non eletti”, e sono stati rimossi con la forza e sostituiti nell’insediamento.

Che cosa accade ai popoli non eletti, agli unchosen peoples, è un tema cruciale di entrambe le narrazioni, così come della narrazione biblica. I popoli eletti, nel corso della loro storia, hanno optato per l’espansione territoriale, nel West americano o nel West Bank. In tutti i casi, hanno trattato duramente i residenti nativi,  indiani e palestinesi, visti come una minaccia alla purezza del progetto, come “troppo diversi, troppo selvaggi, troppo retrogradi e irriducibili” per esservi inclusi. Ci sono state guerre vittoriose, che hanno confermato il senso di missione dei settlers, e aumentato l’aura di inevitabilità provvidenziale e di “destino manifesto” della loro impresa. Così è andata, dicono Gitlin e Leibovitz, ma non era, e soprattutto non deve essere, l’unica alternativa possibile. Persino all’interno dell’idea stessa di chosenness, per quanto arrogante possa apparire, e per quanto ormai sedimentata essa sia (e quindi difficile da rimuovere), è possibile trovare una via diversa. C’è una missing alternative che può e deve essere perseguita: un comandamento religioso e laico, ripetuto da Mosé a Lincoln, dai primi sionisti a Martin Luther King, a costruire una società che tratti tutti allo stesso modo, figli e figlie e vicini e stranieri, rinunciando a qualsiasi pretesa di superiorità – “la nozione che la Terra Promessa non può prosperare senza giustizia”.

wdmjenkinsObama a Gerusalemme ha cose da dire anche a questo proposito, forse perché la storia della Terra Promessa gli è famigliare non solo come una trionfale narrazione nazionale ma anche come una drammatica e non finita narrazione di riscatto da una radicale e insopportabile alterità. “Per gli afro-americani”, dice, “la storia dell’Esodo è stata la storia centrale, l’immagine più potente della fuga dalla morsa della sottomissione per raggiungere la libertà e la dignità – un racconto che li ha accompagnati dalla schiavitù al movimento per i diritti civili fino a oggi. Per generazioni, questa promessa li ha aiutati a superare povertà e persecuzioni, mentre tenevano fede alla speranza che giorni migliori fossero all’orizzonte”. Obama invita dunque gli israeliani (e qui è solo un invito, nient’altro che un invito) a guardare con gli occhi degli altri, a vedere le promesse altrui.

“Mettetevi al loro posto. Guardate al mondo con i loro occhi. Non è giusto che i bambini palestinesi non possano crescere in uno stato tutto loro. Vivendo tutta la vita in presenza di un esercito straniero che controlla non solo i loro movimenti ma anche quelli dei genitori, dei nonni, ogni singolo giorno. Non c’è giustizia quando la violenza dei settlers contro i palestinesi non è punita. Non è giusto impedire ai palestinesi di coltivare la loro terra; o limitare la possibilità degli studenti di muoversi liberamente nel West Bank; o cacciare le famiglie palestinesi dalle loro case. Né l’occupazione né l’espulsione sono una risposta. Così come gli israeliani hanno costruito uno stato nella loro homeland, i palestinesi hanno il diritto di essere un popolo libero nella loro terra”.

Todd Gitlin e Liel Leibovitz, The Chosen Peoples: America, Israel, and the Ordeals of Divine Election (Simon & Schuster, settembre 2010). Todd Gitlin è professore di giornalismo e sociologia alla Columbia University, autore del bestseller The Sixties: Years of Hope, Days of Rage (1987) e di un’altra dozzina di libri; negli anni 1960s è stato un dirigente di Students for a Democratic Society. Liel Leibovitz insegna media e comunicazione alla New York University, è un redattore della rivista online Tablet: A New Read on Jewish Life, e autore fra l’altro di Aliya: Three Generations of American-Jewish Immigration to Israel (2006); nato in Israele è un ufficiale della riserva dell’esercito israeliano.

The Promised Land – The Grayson Family, by William Smith Jewett (1850)
Jewett, William Smith-656924

Categorie:Barack Obama, Cultura politica, nazionalismo

Tag:, , , , , , , , ,

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...