Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

La scommessa ancora viva di Joe Biden

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Il presidente Biden, il vecchio Joe, regular Joe, un «uomo tranquillo» alla John Ford, irlandese testa dura, aveva iniziato il suo mandato con una scommessa ambiziosa. La scommessa resta viva, non è stata uccisa dalle elezioni di metà mandato, e questa è per lui una vittoria.

Joe Biden aveva scommesso su un «cambio di paradigma» (sono sue parole), su una rottura con il passato recente ma soprattutto con un’intera fase semisecolare di storia del paese. Voleva un ritorno alla progettualità pubblica degli anni cinquanta e sessanta del Novecento, al riformismo sociale del New Deal, al ruolo centrale del governo federale, a prima delle pulsioni anti-stataliste che in maniera diversa avevano toccato entrambi i partiti. Il cuore della scommessa era la possibilità che la presidenza Trump rappresentasse la fase terminale, esausta e degenerata del ciclo politico-sociale conservatore inaugurato da Ronald Reagan: l’epoca della «fine del big government» si era conclusa, i problemi accumulati avevano messo in pericolo la stessa convivenza civile e richiedevano l’inizio di una nuova epoca di big government.

Biden e i democratici erano convinti di dover agire con urgenza, fare presto, affinché la scommessa si traducesse nell’avvio di un cambiamento reale, affinché i risultati del cambiamento avessero qualche impatto immediato a loro favorevole sull’elettorato. La democrazia e l’ordine costituzionale erano stati messi alla prova e, benché feriti, avevano mostrato vitalità e capacità di resistenza. Ma davvero, si chiedevano, i pericoli erano finiti? Davvero le spinte profonde che avevano sconvolto la vita pubblica erano rientrate, davvero si annunciavano tempi nuovi? E se i repubblicani ancora trumpiani, ancora complici della menzogna del grande imbroglio elettorale e delle spinte eversive del 6 gennaio, con le loro solide basi sociali, fossero in grado di prendersi una rivincita, di far di nuovo pendere dalla propria parte, con un piccolo tocco, la bilancia della fortuna?

Le midterm elections incombevano a poco più di un anno di distanza, il tempo politico passa in un soffio.

Far presto non è stato facile. La traduzione del nuovo paradigma in legislazione si è rivelato un percorso a ostacoli, per obiettive ragioni interne e internazionali, per l’eccessivo ottimismo delle premesse, per la mancanza di fiato dei democratici in Senato, per la durezza dell’opposizione repubblicana. E tuttavia il raccolto del biennio è stato buono. Subito c’è stato l’American Rescue Plan, a novembre 2021 l’Infrastructure Investment and Jobs Act (con consenso bipartisan), poi lo stallo sul Build Back Better Bill che è diventato un più ridotto Inflation Reduction Act nell’agosto 2022 – già in campagna elettorale. Nelle loro versioni finali tutte queste misure sono state di portata storica per dimensioni finanziarie (quasi 4000 miliardi di dollari in tutto) e impatto riformatore, non se ne vedevano così da più di mezzo secolo. Nel complesso hanno operato un ingente spostamento di risorse verso l’America midlle-class e operaia (e più povera). Includono massicci interventi pubblici anti-recessione, per il rinnovamento delle infrastrutture fisiche e digitali, l’estensione dei servizi sanitari e sociali, l’energia pulita e la lotta al cambiamento climatico. 

Le elezioni dell’8 novembre 2022 potevano rigettare tutto questo. Potevano indebolire l’amministrazione come avviene di solito nelle prime midterm elections di ogni presidenza, ma fare molto di più. Potevano dimostrare che la coalizione democratica che aveva eletto alla grande Biden era provvisoria e friabile, non reggeva alla sua mancanza di popolarità, alla sua immagine senile, fragile, ai tempi lunghi necessari affinché le riforme producano effetti tangibili, al morso quotidiano dell’improvvisa inflazione. Potevano dimostrare che il ceto politico e l’elettorato repubblicano di indole eversiva trumpiana erano in grado, come dicevano loro, di «riprendersi il paese», di riprenderselo alla grande in entrambi i rami del Congresso e nei luoghi del federalismo, negli uffici dei governatori e dei segretari di stato (quelli che certificano i risultati elettorali), nelle assemblee legilastive statali.

Ciò non è accaduto, un vero tocco pro-repubblicano alla bilancia della fortuna non c’è stato. Il partito democratico ha retto l’urto, ha mostrato capacità di ripresa in molte aree sociali e geografiche; è stata piuttosto l’ala trumpiana del partito repubblicano a mostrare delle crepe. Questo non significa che l’amministrazione Biden avrà vita facile nel secondo biennio del suo mandato, tutt’altro. In particolare dovrà triangolare per quanto possibile con una Camera in cui l’esigua maggioranza democratica di ieri è diventata l’ancora più esigua maggioranza repubblicana del prossimo gennaio. E dovrà guardarsi dall’occhiuta presenza di una Corte suprema che è la più duratura delle eredità trumpiane, con sentenze così radicali che, paradossalmente, finiscono per produrre mobilitazioni favorevoli ai progressisti (come nel caso del rigetto di Roe v. Wade sull’aborto). E questa, chissà, è una metafora di questi tempi.

Il significato di questa tornata elettorale è che la scommessa storica di Biden non è morta, e che ha un nuovo appuntamento con «the American people» alle elezioni presidenziali del 2024. Fra due anni, un soffio, e tuttavia tempo guadagnato.

Categorie:Elezioni, presidenza

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2 risposte

  1. Il tranquillo Joe mi è simpatico, spero che riuscirà a portare a termine il suo progetto. Notevole è come ha gestito, con tranquillità, e archiviato, con autorevolezza, l’incidente del missile in Polonia

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  1. Rassegna 18.11.22 - Stefano Ceccanti

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