Questo è un breve estratto del mio saggio lungo (dallo stesso titolo) pubblicato nel fascicolo corrente de “il Mulino” (6/2020), in un blocco di pezzi dedicato a “Gli USA dopo Trump”. Gli altri articoli inclusi nel blocco sono: Tiziano Bonazzi, L’altra faccia del «Make America Great Again»; Massimo Faggioli, Il secondo presidente cattolico e la crisi religiosa negli Stati Uniti; Marco Mariano, La politica estera di Donald Trump e la sua eredità; Chiara Bologna, «Parlare con la voce di un giudice»: il rapporto tra politica e giurisdizione negli Stati Uniti. Il saggio completo è naturalmente sulla rivista di carta.
Quando la composizione etnico-razziale della popolazione e quindi dell’elettorato, di “we the people” in senso politico, si modifica in modo vistoso per quantità e qualità, per immigrazioni massicce o per affrancamento di nuovi gruppi razziali, gli Stati Uniti attraversano periodi di crisi, reazione e riassestamento. E si tratta di periodi lunghi e con tutte le pene del caso, di tensioni e di accentuato antagonismo politico, anzi di massima polarizzazione partitica nella storia nazionale, almeno nella storia post-Guerra civile. Periodi che possono concludersi con veri e propri cambiamenti di regime politico-sociale.
Mica sono cose che si risolvono con la bacchetta magica della buona volontà e dei buoni sentimenti. Ci sono di mezzo gli stili di vita e le strutture di potere reali e simboliche nell’economia e nel mercato del lavoro, nelle comunità e nella sfera pubblica, nel governo. Mica son cose che si aggiustano in un giorno, in nessun paese al mondo. Neanche nel paese che più di altri dovrebbe esserci abituato, un paese multietnico e multirazziale da sempre, e che si auto-definisce la “nazione di immigrati” per eccellenza.
(E per auto-definirsi così, proprio come in altre nazioni simili di origine coloniale, di insediamento europeo nelle Americhe, è successo che gli immigrati delle prime generazioni si siano immaginati come gli unici legittimi residenti, bianchi, tutti bianchi, alcuni prima altri dopo. E abbiano fatto cose sgradevoli ai non-immigrati: abbiano rimosso i nativi di colore e cercato di rimuovere la memoria della deportazione in schiavitù degli africani. Le nazioni di immigrati hanno storie di violenza, di sopraffazione, e nessun immigrato ne è innocente.)
La vittoria di Donald Trump nel 2016 (sia pure per il rotto della cuffia e senza un vero mandato in termini di voti popolari) e poi l’andamento della sua presidenza, hanno espresso il picco di una di queste crisi e reazioni storiche.
Tutto ha puntato in questa direzione. C’è stata l’inedita successione politico-istituzionale in cui la sua vittoria si è collocata, dandole un forte senso simbolico. A sostituire il primo presidente nero, figlio fra l’altro di un immigrato africano temporaneo, un bird of passage, è arrivato un beniamino dei nazionalisti bianchi, con una retorica anti-immigrati così esplicita come mai s’era vista. Ha scritto la storica afro-americana Nell Painter: Trump è senza precedenti perché Barack Obama è senza precedenti.
C’è quindi stata la precisa connotazione razziale del suo elettorato; hanno votato per lui in massa i bianchi, soprattutto i maschi bianchi. E infine c’è stato (e c’è ovviamente ancora) il trend demografico che quella vittoria ha ispirato. I bianchi di origine europea sono in diminuzione da decenni, erano il 90% degli aventi diritto al voto nel 1976, sono diventati il 76% nel 2000, il 67% nel 2018; se le cose vanno avanti così si prevede che alle elezioni degli anni Cinquanta saranno minoranza (nella popolazione generale quel punto sarà raggiunto un po’ prima). E ciò provoca in loro, soprattutto nelle componenti più popolari, paura per il futuro, panico esistenziale per se stessi e per quello che è diventato il partito di riferimento, il partito repubblicano.
Tanto più che gli altri, i non-bianchi sembrano trovare casa nel partito avverso, il partito democratico, il partito di Obama – lì pronto a prendersi tutto.
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Non è la prima volta che ci sono crisi e reazioni del genere, nella storia nazionale. Prendiamo il lungo avvento del suffragio universale maschile nell’Ottocento, che coincise con un lungo periodo di frontiere aperte e con ben due ondate migratorie, la prima nei due decenni precedenti la Guerra civile e la seconda a fine secolo e all’inizio del Novecento. In entrambi i casi gli immigrati erano, proprio come oggi, gente diversa da quella in cui gli americani più vecchi si riconoscevano…
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