Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Perché l’uomo è cacciatore: turbamenti sessuali americani del secolo scorso

111004121323-our-bodies-ourselves-original-cover-horizontal-large-gallerySi parlava molto di sesso nella International Room delle case dello studente a Madison, Wisconsin, nei primissimi anni 1970s. Se ne parlava, voglio dire, fra noi maschi stranieri, soprattutto se provenienti dal mondo mediterraneo. Un libretto dell’università a noi destinato (fra di noi si diceva, con sarcasmo poco politicamente corretto, destinato a noi stranieri “appena usciti dalla giungla”) ci spiegava, fra tante altre cose, che le ragazze americane sono cordiali e aperte e indipendenti, sorridono molto, anche per strada, ma il loro sorriso non deve essere scambiato per un invito sessuale. Quindi state attenti. Naturalmente le ragazze americane erano anche molto svestite, c’erano ancora le minigonne e i reggiseni non usavano più, e quindi i turbamenti sessuali c’erano, eccome.

Per alcuni di noi, il fatto che le ragazze americane fossero aperte, sorridenti e svestite non era affatto tranquillizzante. Ricordo il lamento di due amici libanesi, un libanese di educazione francese e un palestinese proveniente dalla American University di Beirut. I quali dicevano: a noi queste giovani donne fanno paura, non sappiamo come trattarle, sono aggressive, altro che indipendenti. E quindi non sono attraenti eroticamente, non essendo prede da conquistare ci ammazzano il desiderio. Tutto il mondo è paese, naturalmente. Come ha ricordato Adriano Sofri in una sua “Piccola posta” di qualche giorno fa, a proposito di una recente polemica, se ai tempi della nostra maldestra giovinezza ci fossimo trovati di fronte a donne che dicono “importunateci”, saremmo scappati a gambe levate.

A Vartan G., amico fraterno, armeno errante (di lusso), bello come il sole, le americane andavano bene così. Non solo non ne era intimidito ma era felice che fossero loro a importunare lui. Si sedeva in un caffè, nella birreria della Student Union, in una panchina sul lago Mendota, e vualà le femmine si materializzavano come per incanto, incantate dal suo eloquio scintillante e multilingue. In famiglia, nella estesa famiglia di businessmen che aveva membri in tutte le capitali del Levante e d’Occidente, aveva imparato il francese e il russo, al liceo italiano di Addis Abeba l’italiano, alla American University del Cairo l’arabo e l’inglese. Lui parlava e loro lo portavano a cena e a letto. Con facilità cambiava partner senza lasciare cattivi ricordi o risentimenti. Con la stessa facilità, ora che lo seguo su Internet, vedo che continua a fondare, sviluppare e rivendere startups tecnologiche in California, una dopo l’altra.

Alcuni giovani italiani dicevano che quello che avevano sotto gli occhi era il paradiso dell’acchiappo. O almeno così credevano, o almeno così raccontavano. Uno di loro, con una qualche triangolazione, aveva importato in Canada e da lì negli Stati Uniti una Giulia Alfa Romeo con cui scorrazzava italianamente spavaldo per il campus e per le strade dello stato, andava anche nelle foreste del nord alla caccia al cervo, e si faceva vedere in giro con graziose signorine molto bionde. “Perché le americane sono fatte così”, diceva, fatte come non lo ricordo, ma lo diceva con tono da intenditore. Comunque, grazie alla sua alfetta, finiva che si parlava quasi sempre non di sesso ma di automobili, di multe per eccesso di velocità e di traffic courts, erano queste le sue vere passioni. “Perché gli americani sono fatti così”, diceva con disprezzo, e si capiva come.

Per i maschi iraniani, fuori dell’International Room c’era l’inferno delle puttane americane, neanche a parlarne (poi a puttane magari ci andavano, sia in senso figurato che in senso proprio, erano gli unici fra noi a essere pieni di soldi). La loro ossessione erano piuttosto i comportamenti sessuali delle studentesse loro connazionali, sulle quali esercitavano un controllo ferreo. Pronti a denunciarne le infrazioni alle rispettive famiglie, tutte appartenenti agli stessi ambienti facoltosi di Teheran, peggio della Savak, la polizia segreta dell’allora Shah. La mia amica Soudabeh confermava: niente sesso, poteva perdere la reputazione, essere richiamata a casa. Soudabeh dagli splendenti capelli corvini, che studiava business administration e diceva di sé “Sono persiana, non iraniana” – chissà com’è sopravvissuta al 1979.

E poi c’era M., la casta M., arrivata casta dalla natìa e libertina Francia a studiare la puritana storia americana, che scoprì che le ragazze americane erano esattamente la cosa che faceva per lei. E per loro perse la testa e la castità. Frequentò anche gli ambienti lesbici e i circoli femministi (andai anch’io con lei qualche volta, con tutta la dovuta cautela), ma era troppo felice della sua improvvisa scoperta della sessualità, la sua scoperta dell’America, diceva, per costruirci attorno una identità esclusiva. Come mi scrisse un amico durante una mia lunga assenza, M. nel giro di qualche tempo scopò con tutte le persone che si conoscevano, senza distinzione di nazionalità, razza, etnìa, credo religioso (o politico, per quanto odiasse i repubblicani), genere e orientamento sessuale.

Per ciò che mi riguarda, io ero, come si sarebbe detto nelle carceri fasciste, un “politico”, quindi frequentavo gruppi e gruppetti dove questi problemi avevano una loro gestione specifica perché, come è tradizione nella sinistra intellettuale di sempre, lì, in nome della causa, tutte e tutti scopavano con tutti e tutte. Mi dissero che la tradizione si era rinnovata negli anni 1960s, quando era considerata un espediente per individuare gli infiltrati della polizia i quali, si supponeva, erano così straight che mai avrebbero ceduto al sesso libero (o, se è per questo, al diffuso e illegale uso di farsi una canna prima delle riunioni: chi non fumava era sospettabile). Quella ridicola fantasia infantile era stata superata con l’età e l’esperienza del mondo, ma la pratica più o meno rimaneva.

Una volta che tornai in Italia, nell’estate del 1973, regalai alla mia amica D. un libro appena uscito in vera edizione libresca (prima era un esile pamphlet), Our Bodies Ourselves, curato da un collettivo femminista di Boston. La mia amica D., che sarebbe diventata femminista di lì a poco, ma che ancora non lo era, mi disse stupita, “Cosa mi hai portato, l’enciclopedia della donna?” Nel libro, diventato un bestseller internazionale da parecchi milioni di copie, si affrontavano con chiarezza problemi allora ritenuti scabrosi, a proposito di sessualità e piacere sessuale, di gravidanza e controllo delle nascite, di identità di genere e di orientamento sessuale e – ebbene sì, già allora, di violenza e abusi e molestie contro le donne.

Categorie:Americanismo, Memorie, Memory lane

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