Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Redneck Revolt!

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The Redneck Revolt: Front Range John Brown Gun Club, Pueblo, Colorado. Photo Robert Mitchell / Sleepless Art

Il termine redneck (collo rosso) è spesso usato come un insulto nei confronti dei bianchi che vivono in aree povere e rurali, magari del Sud, e che tendono a essere politicamente conservatori e razzisti. A usarlo è spesso gente di città, magari progressista, che prende le distanze dall’America “profonda” guardata con disprezzo. (Altri termini simili sono white trash, spazzatura bianca, e hillbilly, bifolco, montanaro). Redneck allude a chi lavora sotto il sole e ha la pelle bruciata sulla schiena. Negli anni 1920s ha assunto anche un significato politico, quando i minatori della West Virginia usarono fazzoletti rossi annodati al collo durante i loro durissimi scioperi.

In nome di questa storia politica di resistenza, ma anche in nome di una affermazione di orgoglio di classe contro i pregiudizi liberal urbani, del termine si sono ora appropriati alcuni gruppi di attivisti di sinistra che vogliono creare un movimento working-class per la giustizia sociale, antirazzista, anticapitalista e antifascista in maniera militante. Uno dei loro slogan è “Putting the red back in redneck”, rimettere il rosso in redneck, il rosso della tradizione operaia e socialista. Il nome collettivo che hanno dato al loro network nazionale è Redneck Revolt.

Redneck Revolt è stato fondato nel 2016 e, a loro dire vanta già una cinquantina di sedi in una trentina di stati, nel Midwest e nel Sud. E’ diventato visibile l’anno scorso quando i suoi membri si sono assunti il compito di “proteggere” alcune manifestazioni della sinistra radicale, di gruppi come Black Lives Matter o di minoranze religiose come le comunità musulmane, contro la destra white-nationalist e white-supremacist. Gli eventi di Charlottesville, Virginia, dell’agosto 2017 sono probabilmente i più noti (e tragici). In tutti questi casi protezione ha voluto dire, esplicitamente, presenza armata contro una destra estremista altrettanto armata.

Redneck Revolt è andato in piazza con fucili e pistole in bella vista.

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The Redneck Revolt: armed members in Charlottesville, Virginia, at the White Nationalist protest, August 12, 2017. Photo Edu Bayer/NYT.

Questo è uno dei tratti peculiari e una novità del gruppo. Che rivendica, da sinistra, il diritto di portare armi e di portarle in pubblico. Per distinguersi dai sostenitori conservatori dei gun rights, dice di farlo non in una prospettiva individualista, come diritto all’autodifesa personale, bensì in una prospettiva collettiva, come diritto all’autodifesa della comunità degli sfruttati. Sembra rifarsi alle giustificazioni del Black Panther Party degli anni 1960s. In effetti, non si distingue molto da quei gun righters di destra ai quali non è affatto estranea l’idea di difesa comunitaria (tutto sta a intendersi su quale comunità).

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Come le milizie dell’estrema destra anche i membri di Redneck Revolt fanno pratica nell’uso delle armi. Invitano quindi a frequentare club di tiro e a fondarne di propri. Dice il loro sito: “In stati dove è legale praticare la difesa armata di comunità, molte nostre sedi decidono di diventare John Brown Gun Clubs, per addestrare noi stessi e le nostre comunità alla difesa e all’aiuto reciproco”. Il nome di John Brown, com’è ovvio, è fortemente evocativo anche se non proprio di buon auspicio. Dove sia davvero legale la “armed community defense”, così, su due piedi, francamente non saprei dire. Ma tant’è.

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“Make Racists Afraid Again”. The Redneck Revolt: John Brown Gun Club of Phoenix, Arizona.

L’altro tratto peculiare di Redneck Revolt, non proprio una novità nella storia del movimento operaio americano, è ambiziosissimo. Lo scopo è niente di meno che innescare un movimento che unisca tutta la classe operaia senza distinzione di colore, religione, orientamento sessuale, genere, nazionalità. Un movimento che, soprattutto, superi la frattura razziale. “Se, come classe operaia, vogliamo che diventi realtà la libertà politica, sociale ed economica, libertà vera per tutti, allora dobbiamo contribuire direttamente alla lotta contro tutte le forme di oppressione, specialmente la supremazia bianca”.

Se a dire queste cose sono dei rednecks, cioè, secondo lo stereotipo, dei bianchi razzisti, bisogna dare qualche spiegazione in più. Anche noi lavoratori bianchi, dice Redneck Revolt, beneficiamo in maniera marginale del sistema della supremazia bianca, e contribuiamo a difenderlo. E tuttavia ciò mantiene al potere i ricchi e tiene tutti noi, di ogni razza, in uno stato di povertà e subordinazione. Solo nei momenti in cui i lavoratori bianchi si sono alleati con quelli di tutte le razze, solo allora l’elite dominante si è sentita minacciata. Solo quando c’è stata solidarietà razziale e di classe “la liberazione è stata a portata di mano, dietro l’angolo”.

Vasto programma, non c’è che dire.

Per il futuro. Nel frattempo e nell’attesa, Redneck Revolt cerca di fare propaganda e proselitismo nei luoghi di culto dei rednecks, dove finora sono stati i white supremacists a sentirsi a casa, nelle fiere locali e in quelle del bestiame, nei gun shows e nelle gare automobilistiche del circuito Nascar. E naturalmente fa le sue scorte armate a certe manifestazioni.

(Sperando – noi – che prima o poi non finisca in una gunfight at the O.K. Corral.)

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Categorie:Radicalism, violenza

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  1. Antifa! (e le troppe lezioni della storia) – Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

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