Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Trump ha nominato ventisette giudici federali – altro che non far niente

Donald_Trump_with_Neil_Gorsuch_01-31-17In questi suoi primi duecento giorni da presidente, che sembrano tanto vuoti di successi, una cosa importante Donald Trump l’ha fatta: ha nominato un sacco di giudici federali.

Sappiamo tutti del riuscito insediamento di Neil Gorsuch nel seggio della Corte suprema lasciato vacante, un anno fa, dalla morte del giudice conservatore Antonin Scalia. Lo sappiamo perché la lunghissima vacanza è stata uno scandalo politico, con il Senato repubblicano che ha rifiutato di prendere in considerazione il prescelto dell’allora presidente Obama. E lo sappiamo perché, naturalmente, la Corte suprema è molto visibile.

Ma la Corte suprema è solo il vertice, stretto stretto, del complesso sistema giudiziario federale. Ed è qui, nel complesso e più esteso sistema sotto il vertice, che l’attivismo trumpiano è stato straordinario.

Un columnist del Washington Post, l’altro giorno, ha fatto un po’ di conti. Trump ha selezionato ben 27 nuovi giudici inferiori, di cui nove per le Corti d’appello e diciotto per le corti distrettuali. Il che significa tre volte tanto le nomine fatte da Obama nello stesso periodo iniziale della sua presidenza, e il doppio delle nomine fatte da Reagan, Bush Senior e Clinton messe insieme (sempre nello stesso periodo). Se continua così, da questo punto di vista, la sua potrebbe essere una presidenza da record.

Il numero del giudici d’appello, nove, è particolarmente rilevante. Perché nove sono tanti e siedono in organi influenti: le Courts of Appeals del paese prendono decisioni finali sulla quasi totalità dei casi federali – solo il 2% arriva al sancta sanctorum della Corte suprema. E perché sono comparativamente giovani: 48 anni di media, rispetto ai 55 anni dei primi nominati di Obama. Siccome si tratta di nomine a vita, molti di loro potrebbero essere ancora in carica nel 2050. Potrebbero influenzare in senso conservatore, fino ad allora e per l’ulteriore futuro, la lettura delle libertà e dei diritti degli americani.

Ora, è vero che per il momento di tratta di nomine presidenziali che per diventare effettive devono ancora, quasi tutte, ottenere il consenso del Senato. La fila è lunga e i tempi non sono brevissimi. Ma insomma, il Senato repubblicano è ovviamente ben disposto e i primissimi casi discussi sono passati con successo. Magari con maggioranze strettamente di partito, come i due giudici di corte d’appello confermati finora, l’ultimo dei quali pochi giorni fa (John K. Bush, il 20 luglio, con 51 voti repubblicani a favore e 47 democratici contro).

Già, che cosa può fare l’opposizione, che cosa possono fare i democratici in questa partita così importante per il futuro del paese? Quasi niente, sembra.

Il columnist del Washington Post di cui sopra è stato un consulente democratico ad alti livelli, vicino a presidenti e ad aspiranti tali, e si ingegna per trovare risposte sensate a questa domanda. Con scarsi risultati. I democratici, dice, dovrebbero usare tutti i trucchi del mestiere per rallentare le procedure di conferma; anche se con la recente abolizione del filibuster per le nominations l’ostruzionismo ha perso efficacia. E dovrebbero fare un po’ di campagne pubblicitarie intorno ai casi più controversi, collaborando con le organizzazioni progressiste nella società civile.

Ah già, ci sarebbe pure l’opzione nucleare, quella finale: i democratici dovrebbero darsi da fare per riprendersi la maggioranza in Senato nel 2018. E che Iddio lo benedica per questa brillante trovata.

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Categorie:Potere giudiziario, sistema giudiziario

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