Una versione diversa, più breve sarà nel numero 126 de “Il Grandevetro”
Fra gli eventi straordinari che nel 1917 irrompono nella nostra storia, annunciando una nuova epoca carica di promesse di cambiamento, di speranze di pace, di enormi sconvolgimenti, di terribili violenze, c’è l’ingresso nella Grande guerra degli Stati Uniti d’America. Quando il Congresso di Washington, il 6 aprile di quell’anno, dichiara guerra alla Germania, anzi al governo imperiale tedesco, tutti capiscono che i giochi stanno cambiando.
Gli Stati Uniti sono un gigante. Sono la prima potenza industriale del mondo, lo sono dall’inizio del Novecento e ormai superano anche, per dimensioni e capacità economiche, l’intero impero britannico. E sono una potenza extra-europea, una vera novità strategica, anche se per gli europei la novità è in qualche modo attenuata dal fatto che il paese è abitato da tanti immigrati arrivati da questa parte dell’Atlantico, e quindi sembra meno lontano e meno alieno.
Gli Stati Uniti inoltre hanno idee nuove sul da farsi nella guerra e della guerra, espresse nei discorsi del presidente Woodrow Wilson: idee di democrazia, equità e giustizia internazionali (“rendere il mondo sicuro per la democrazia”, una “pace senza vittoria”), l’idea di un nuovo ordine mondiale liberale fondato sulla auto-determinazione dei popoli (anche coloniali), sulla interdipendenza delle nazioni, sul libero commercio, sulla cooperazione multilaterale e sulla soluzione pacifica dei conflitti all’interno di una associazione universale degli stati (i famosi “quattordici punti per la pace” del gennaio 1918).
Ecco dunque, nel mezzo di un conflitto disastroso, una nuova potenza che si appoggia sul suo primato economico per proporre una riorganizzazione del sistema internazionale orientata a un futuro pacifico, a vantaggio proprio e, si suppone, a vantaggio di tutti. Ecco una grande potenza capace di coniugare l’hard power economico e militare dei suoi interessi (potenzialmente imperiali) con il soft power dei suoi ideali – e di proiettare tutto ciò in un progetto di leadership o di egemonia mondiale. Tutto ciò, lo sappiamo noi oggi, è destinato a plasmare la storia dell’intero secolo successivo.
Gli americani chiamano questo secolo il “secolo americano”. Lo chiamano così non allora, nel 1917, che è troppo presto, ma più tardi, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Il termine, American Century, è coniato in un articolo del 1941 da un importante editore e giornalista, Henry Luce. Ed è popolarizzato dopo il 1945, quando gli Stati Uniti sono davvero al vertice del potere mondiale. E’ allora che i politici e gli strateghi proiettano il secolo americano nel futuro delle loro speranze. E gli storici ne retrodatano l’inizio appunto al 1917.
E tuttavia il secolo americano non è mai solo questo – americano.
La formula indica sempre un desiderio, un progetto, una sfida in un mondo complesso pieno di protagonisti e di concorrenti. E’ così nel 1941, quando il mondo sembra essere sull’orlo del “secolo fascista” tedesco e giapponese, piuttosto che americano. E’ così dopo il 1945, quando la sfida viene dall’altro grande vincitore della guerra antifascista, l’Unione Sovietica. Ed è così già dal 1917, dai tempi di quella Rivoluzione bolscevica che fonda l’Unione Sovietica e che è l’altro straordinario evento di quell’anno fatale.
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Negli anni pre-guerra della sua presidenza, Wilson riforma la politica estera del suo paese, rompendo con il colonialismo e il protezionismo nazionalista dei predecessori repubblicani, tipo Teddy Roosevelt. Da buon democratico è anti-colonialista e a favore della libertà dei commerci. Dice: che tutti i paesi abbiano l’indipendenza politica e poi aprano i loro mercati ai pacifici traffici internazionali. E’ insomma un sostenitore del cosiddetto “imperialismo della porta aperta”, informale, economico, di cui pensa che gli Stati Uniti saranno i massimi beneficiari.
Entrando in guerra nel 1917 Wilson vuole riformare anche il mondo.
All’inizio il suo internazionalismo liberale e free-trade, capitalista e democratico, anti-coloniale e multilateralista, è una sfida al vecchio ordine europeo, anche quello dei paesi amici, la Gran Bretagna, la Francia – un ordine che ai suoi occhi è protezionista, militarista, colonialista, il residuo di una storia di conflitti nazionali e di dominio che non vuole passare. E’ una sfida al passato del vecchio mondo, in effetti al “secolo europeo” che ha dominato l’Ottocento.
Dalla fine del 1917 diventa oggettivamente anche un’altra cosa, e cioè una sfida al nuovo internazionalismo prodotto dalla Rivoluzione d’ottobre. Un internazionalismo comunista e anti-capitalista, molto più esplicitamente anti-colonialista, che vuole innescare una rivoluzione mondiale in nome di valori universali di riscatto ed eguaglianza sociale – l’alba di tempi radicalmente nuovi. E questa è e diventerà la sfida sul futuro, sulla conquista del futuro, di cui solo più tardi si coglierà tutta la portata.
Il confronto con la rivoluzione bolscevica è significativo perché anche Wilson fa appello allo spirito di una rivoluzione concorrente, la Rivoluzione americana del 1776. Una rivoluzione che è anch’essa anti-coloniale, fatta di principi repubblicani di auto-governo, di eguaglianza e libertà politica che sono visti come universali e destinati a diffondersi in tutto il mondo. Anche questa rivoluzione annuncia tempi radicalmente nuovi, e la sua promessa è ancora viva e vitale. Wilson ricorda che la sua forza propulsiva è tutt’altro che esaurita. Dice: “la Rivoluzione americana è un inizio, non una conclusione”.
Nell’immediato dopoguerra il progetto wilsoniano fallisce, è sconfitto a Versailles dagli alleati, ed è sconfitto a Washington dal ritorno di fiamma dell’opposizione repubblicana che rifiuta di entrare nella Società delle Nazioni, di prendere impegni collettivi sovranazionali. Scompare dalla vista. Ma non muore. Viene ripreso dagli americani durante e dopo la Seconda guerra mondiale, lo si legge nei discorsi di Franklin D. Roosevelt, nella Carta Atlantica, nello statuto dell’ONU. Ed è allora che si capisce quanto esso innervi e dia direzione a quello che si comincia a chiamare il secolo americano.
E’ allora che si capisce come quel secolo non sia solo il secolo degli Stati Uniti, punto e basta. E’ piuttosto, fin dal 1917, il secolo dello scontro fra i due internazionalismi nati allora. Uno scontro fra americanismo e comunismo che dopo il 1945 si incarna in due superpotenze armate fino ai denti, impegnate in una grande contesa ideologica ma anche nel gioco della geopolitica mondiale. E’ la Guerra fredda con l’Unione Sovietica che fa sì che il secolo americano sia in realtà dimezzato, limitato geograficamente e politicamente da un formidabile antagonista.
D’altra parte, l’ascesa e vitalità del secolo americano sono così legate alla presenza dell’antagonista comunista che, quando l’Unione Sovietica crolla e sembra così suggellare il trionfo degli Stati Uniti e della sua tradizione ideale e politica, dopo un attimo di ebbrezza onnipotente yankee, anche l’idea stessa di secolo americano entra in crisi. Si comincia a discutere se non sia finito anch’esso, privo ormai di autorevolezza e progettualità politica se non di hard power; se non possa essere sostituito dal “secolo dell’Asia” o dal “secolo cinese” – o dal caos.
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Il giorno dopo la dichiarazione di guerra, il 7 aprile 1917 si apre a St. Louis, nel Missouri, il congresso del Socialist Party of America che dichiara la sua “inalterabile opposizione alla guerra”, una opposizione netta, continua, attiva e pubblica con ogni mezzo. E’ questo un altro evento straordinario di quell’anno, la cui importanza è spesso sottovalutata. In effetti, esso segna, allora e per il secolo a venire, il destino del partito socialista e della stessa idea socialista in America.
Il partito socialista è piccolo ma tutt’altro che ininfluente. Alle elezioni presidenziali del 1912 prende quasi un milione di voti, il 6% del totale. Ha migliaia di sezioni, centinaia di organi di stampa, è presente nei sindacati, governa un po’ di città e cittadine, elegge deputati statali, eleggere un paio di deputati in Congresso. E soprattutto: sta crescendo ed è un soggetto del tutto legittimo nel discorso pubblico nazionale.
Schierandosi contro la guerra il partito dà voce a pezzi di opinione radicale e pacifista – ma si gioca tutto questo. Come altri attivisti anti-guerra, i socialisti incappano nella legislazione patriottica emergenziale. Ci sono giornali sequestrati, riunioni vietate, dirigenti tartassati e arrestati. Il partito ne soffre, ne esce a pezzi, tanto più frantumato poi dalle scissioni comuniste. Ma questi sono effetti immediati e contingenti: due sviluppi sono molto importanti sul lungo periodo.
In primo luogo, sulla questione della guerra i socialisti rompono con i sindacati, ed è una rottura storica senza ritorno. La American Federation of Labor appoggia lo sforzo bellico, ne trae vantaggio, raddoppia gli iscritti. I dirigenti sindacali socialisti sono in difficoltà, lasciano le cariche oppure si convertono per convinzione o per sopravvivere. Da allora il labor movement americano va per la sua strada, una strada non socialista.
In secondo luogo, le parole “socialismo” e “socialista” finiscono per essere associate alla slealtà anti-patriottica e all’aggettivo un-American. Tanto più che i socialisti pacifisti sono spesso immigrati o figli di immigrati, sospettati di essere agenti stranieri – agenti del Kaiser? Il sospetto è sfruttato dalla propaganda governativa, e mette stabili radici nella cultura sociale e politica. Da allora le idee socialiste perdono legittimità nella sfera pubblica, sono marchiate come aliene.
A cominciare da allora gli Stati Uniti, a differenza dei paesi industriali capitalistici paragonabili, non hanno un partito socialista o laburista di rilevanza nazionale. Prima della Grande guerra il partito c’è e cresce, come altrove; dopo la guerra diventa insignificante. E questa diventa una caratteristica importante del paese fino a oggi, riassunta dalla celebre domanda, “Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo?”.
Nel secolo americano questa è la grande diversità americana – come se le idee e le pratiche socialiste fossero espulse dall’esperienza nazionale, attribuite a una potenza straniera e nemica.
Chissà se è un caso che oggi, mentre di discute di crisi o fine del secolo americano, la parola “socialismo” ritorni legittima nella conversazione pubblica americana. Per esempio nella campagna di Bernie Sanders del 2016. Oppure in ciò che vi sta dietro e cioè nel fatto che, secondo ripetuti sondaggi d’opinione, quattro cittadini su dieci dicano di preferire il socialismo al capitalismo. All’inizio del 2017 la rivista conservatrice National Review l’ha messa giù così: “La crescente popolarità del socialismo minaccia il futuro dell’America”. Ma si sa che i conservatori sono facili a veder rosso.
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In ogni caso, a cento anni esatti dal 1917 di Wilson, è entrato in carica un presidente degli Stati Uniti che è, da moltissimi punti di vista, l’esatta nemesi di Wilson. Donald Trump sembra assomigliare, per quello che se ne capisce, proprio a quei repubblicani che nel 1919-1920 ne affossano per un ventennio le fortune: nazionalisti, protezionisti e unilateralisti. Come ha scritto lo storico Adam Tooze, “in termini politici, il secolo americano sta finendo non come è cominciato, con un bang modernista, bensì in un imbarazzante atavismo” – in una imbarazzante regressione a un’epoca passata.
Anche se, naturalmente, nulla di ciò che succede è davvero atavico: se succede nel presente è parte e prodotto del presente. Ma questa è un’altra storia.
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Categorie:Americanismo
Tag:American century, guerra fredda, Secolo americano, socialismo, Woodrow Wilson
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