Il tema centrale del gran volumone che Gabriele Ranzato dedica alla storia di Roma sotto l’occupazione nazista, fra l’8 settembre 1943 e l’arrivo dell’esercito alleato il 4 giugno 1944 (La liberazione di Roma, Laterza 2019), è il tentativo di ricongiungere e integrare due filoni narrativi in genere presentati come paralleli o con rari punti di tangenza. E cioè, citando l’Autore: “da una parte la storia politico-militare di cui furono protagonisti gli Alleati, per i quali l’obiettivo da conseguire era, come spesso scrissero, soprattutto la ‘caduta della prima capitale dell’Asse’; dall’altra quella della Resistenza, tutta incentrata sui fatti relativi all’ambito cittadino e sull’attività delle forze antifasciste contro i tedeschi e i loro collaboratori italiani, come contributo più che simbolico del popolo romano alla propria liberazione”.
Copio di seguito un paio di paginette su una questione specifica che mi interessa, l’atteggiamento dei romani nei confronti dei loro liberatori anglo-americani – una questione che è discussa nel corpo del libro e che qui è schematicamente riassunta in introduzione (pp. xx-xxi) e conclusione (pp. 632-33).
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Non c’è da sorprendersi, né da biasimare troppo quell’atteggiamento [della popolazione cittadina] di forte distanza dagli Alleati, che molto più che dalle diffidenze politiche della sinistra resistenziale verso di essi dovette dipendere da una comprensibile forza d’inerzia della loro immagine di nemici di ieri, anche nell’animo di coloro che ormai odiavano i tedeschi e volevano sbarazzarsene. Ci sono varie indicazioni del fatto che, pur aspirando i romani a essere liberati dall’esercito alleato, essi non lo sentivano affatto come un esercito che combattesse la loro guerra. Tra queste, forse la più significativa è data dalle aspre critiche, dalle parole di disprezzo, e persino dagli scherni che circolarono anche negli ambienti antifascisti, come qui si mostra, di fronte alla battuta d’arresto che dopo Anzio quell’esercito dovette subire per molti mesi. Perché nessun popolo che si identifichi con la causa di un esercito proprio, o anche straniero, potrebbe, pur mettendo in dubbio la buona esecuzione di una sua operazione, farne oggetto di deplorazione e beffe, anziché addolorarsi per le sue sconfitte e compatire le sofferenze dei suoi soldati. E quel che più colpisce è il fatto che in seguito quella distanza tra romani e Alleati non avrebbe fatto posto, al di là di passeggere manifestazioni di entusiasmo per il loro arrivo liberatore, a un sentimento di gratitudine duraturo, come mostra l’assenza – fino ad oggi – di un monumento nella città e di ogni altra altra celebrazione di quell’evento.
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Dopo lo sbarco in Normandia, il 10 giugno [1944] lo scrittore francese Jean Guéhenno scriveva nel suo diario: “Non è gioia ciò che ho sentito martedì. Ero travolto dalla riconoscenza, dall’intima comprensione di tutto ciò che in quell’istante stesso migliaia di giovani soffrivano per noi”; e più avanti, il 12, aggiungeva: “Una cosa è certa: la Francia non poteva più uscire da sola dalle sue disgrazie e noi dovremo la nostra libertà e il nostro onore ritrovati a quei giovani uomini venuti dall’Inghilterra, dall’America, dal Canada, da in capo al mondo, per combattere e mescolare il loro sangue con quello dei giovani francesi”. Non esiste, o non è facilmente rintracciabile, uno scritto analogo di antifascisti romani e forse neppure di altri italiani. E non resta alcuna tangibile traccia che quel sentimento di gratitudine sia stato espresso da altri abitanti della città. Anzi, una buona parte di loro poteva essere rappresentata da quegli uomini che, secondo la testimonianza di un ufficiale britannico, pur accogliendo festanti le truppe alleate, rivolgevano loro parole il cui senso era: “Siamo molto felici di vedervi finalmente. Ma perché ci avete messo tanto?”.
Il commento adeguato a quella domanda lo avrebbe scritto nel suo libro sulla Campagna d’Italia lo storico Rick Atkinson: “Perché ci avete messo tanto? chiedevano gli italiani, e la risposta non poteva che essere una sola: Perché tanti di noi sono morti per liberarvi”. E’ una risposta che certamente non fu data a coloro che l’avevano fatta con tanto sconveniente candore, perché era evidente che non era quella che avrebbero voluto sentire.
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