Bernie Sanders è di nuovo in campo per conquistare la nomination alla presidenza e poi, sperabilmente per lui, la presidenza proprio. Anche se non ama tanto sottolinearlo nei suoi primi annunci e spot elettorali (fateci caso), è ovvio che la nomination a cui si candida è quella del partito Democratico, cioè di un partito che non è il suo. Che non è il suo per militanza, visto che non ne fa parte, e neanche per convinzione ideologica, visto che si definisce un socialista. Il problema non è nuovo, si è già presentato nella stagione delle primarie del 2016. Un paio di riflessioni di allora possono aiutare a identificare un paio di possibili, eventuali, forse inevitabili questioni dell’oggi.
Il senatore del Vermont Bernie Sanders è tecnicamente un “indipendente”, non è eletto con un’etichetta di partito. Tuttavia “fa caucus” con i Democratici, cioè è membro del loro gruppo parlamentare. E con loro, con molti di loro, spesso con quasi tutti loro, ha votato il più delle volte. Da anni i Democratici ricambiano la cortesia evitando di presentare un loro candidato nel suo stato. Non vogliono dividere i voti del suo elettorato, di fatto lasciando che i propri elettori convergano su di lui. Sanders è eletto in un collegio uninominale statale (il Vermont appunto), dove il primo che arriva prende il posto, gli altri niente. Per essere eletto ha dovuto quindi costruirsi una macchina elettorale adeguata e una coalizione popolare maggioritaria (cioè ampia e diversificata), ha curato le sue creature per decenni, le ha tenute efficienti e in buona salute. Insomma, Sanders è un politico di professione di lungo corso, un pro alla George Washington Plunkitt (si fa per dire), con profonde radici nel territorio del suo collegio. Ed è, per forza di cose, un politico a vocazione maggioritaria che fa affidamento sulla benevola desistenza locale e sulla generosa accoglienza nazionale di un grande partito con una altrettanto necessaria vocazione maggioritaria.
Tutta la politica è politica locale, diceva Tip O’Neil (un predecessore della Speaker della Camera Nancy Pelosi). Se Sanders non fosse quella così lì nel Vermont e quindi nel Senato degli Stati Uniti a Washington – non avrebbe la visibilità istituzionale e in genere le risorse politiche per fare il leader nazionale. Anzi, sarebbe proprio a casa a coltivare le memorie dei fabulous Sixties. Sarà capace di portare la lezione maggioritaria e coalition-building dei suoi successi nel Vermont nella sua campagna presidenziale? Nel 2016 non gli è stata data la possibilità di provarlo davvero.
E tuttavia le risse del 2016, non tanto fra Bernie e Hillary Clinton personalmente quanto piuttosto fra i loro seguaci più fervidi, suggeriscono che la vocazione maggioritaria è una virtù difficile da praticare. Implica attitudine alla creazione di coalizioni eterogenee, al compromesso delle passioni e degli interessi, all’ipocrisia ideologica e umana, al culto del meno peggio. C’è poco fare. Per gli Hillaristas di allora, e senza dubbio per molti Democratici centristi di oggi, Bernie era e probabilmente sarà un intruso estremista e un free rider, uno che sfrutta per i suoi scopi un partito che non è il suo. Per i Sanderistas di allora e chissà per quelli di oggi, Hillary e quelli e quelle come lei erano e sono corporate Democrats, corrotti fino al midollo, nelle tasche del grande capitale, un nemico. Naturalmente gli uni avrebbero bisogno degli altri, per combinare qualcosa. E visto che qui mi interessano in particolare i sostenitori di Bernie – si ripeteranno i giuramenti di non votare neanche morti per candidati che non siano Bernie, qualora Bernie non dovesse ottenere la nomination? Non capendo che, qualora fosse invece Bernie il nominee, sarà lui, per vincere le elezioni generali, ad aver bisogno di tutto il sostegno degli interessi e degli elettori Democratici di ogni colore e moderazione e corruzione corporate? E in caso di loro scarso entusiasmo, si urlerà certo al tradimento.
Ma questa volta le cose andranno sicuramente in maniera diversa, no? Il partito Democratico e il paese sono pronti per il socialismo, lo dicono tutti, e non c’è solo Bernie Sanders.
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