Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

“Il secolo degli Stati Uniti”: terza edizione 2017

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Pubblico due pagine (non consecutive) dalla terza edizione di “Il secolo degli Stati Uniti”, che è appena arrivata in libreria, nuova nuova, fresca fresca. E che è aggiornata agli ultimi giorni di Obama e alla prima notte di Trump.

Straordinario e sorprendente 2016

Il risultato delle elezioni, l’8 novembre, fu una sorpresa dell’ultimo minuto anche per il vincitore. Come previsto dai sondaggi, Hillary vinse alla grande il voto popolare nazionale, con 65,9 milioni di voti contro i 63 milioni dell’avversario, quasi 3 milioni in più. Ma perse nella conta dei voti elettorali negli stati, là dove era costituzionalmente importante e dove i sondaggi erano più ambigui. Trump vinse negli stati da sempre repubblicani, negli stati in bilico (Florida e North Carolina, Ohio e Iowa) e soprattutto, per un pugno di voti, in alcuni stati che da decenni votavano democratico, ma questa volta no: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin. Il verdetto del collegio elettorale presidenziale era chiaro, c’erano 304 voti elettorali per Trump e 227 per Clinton. Il modo in cui si divise l’elettorato non fu diverso da quello delle elezioni precedenti. Nei grandi numeri, le coalizioni che sostennero i due candidati e i due partiti continuarono a essere le stesse del 2008 e del 2012, quando a vincere erano stati i democratici; d’altra parte, i democratici erano tuttora maggioranza nel paese. L’attesa di un vero riallineamento elettorale fu di nuovo delusa. Ci furono tuttavia degli spostamenti marginali che furono quelli decisivi. Si accentuò ulteriormente la polarizzazione politica, sociale, etnico-razziale e geografica degli elettori dei due partiti, la loro divaricazione ideologica, la loro avversione reciproca, persino, dicevano alcuni sondaggi, la loro estraneità personale. E ciò portò a una ulteriore accentuazione del voto bianco, maschile, protestante conservatore, di mezza età, non-urbano e in parecchi casi operaio a favore dei repubblicani, dovunque ma soprattutto nelle regioni del nordest e del Midwest più colpite dalla crisi economica e industriale. Fu così che, per il rotto della cuffia, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin consegnarono a Trump le chiavi della Casa Bianca. Fu anche così che il voto parve l’estrema reazione razziale bianca alla presenza di un presidente nero. Fu così, infine, che Trump divenne un presidente di minoranza, come già era successo altre volte in passato, l’ultima nel 2000 con l’altro repubblicano, George W. Bush. Come aveva dimostrato il caso di Bush, ciò non gli avrebbe impedito di usare la pienezza dei suoi poteri, tanto più che a quel punto i repubblicani controllavano davvero tutto a Washington: il governo di partito era tornato in città. Otto anni dopo l’elezione di Obama, il suo successore non poteva essere più diverso da lui. Era in effetti la sua nemesi personale e politica.

Un nuovo secolo degli Stati Uniti?

Di simili questioni si discuteva anche nella Casa Bianca di Donald Trump, all’inizio del 2017, almeno fra i suoi consiglieri. La formula con cui la discussione divenne di dominio pubblico aveva origini piuttosto colte per il pubblico generale, e forse anche per il presidente, ma affascinava gli addetti ai lavori. Di fronte all’emergere della Cina, era possibile per Cina e Stati Uniti evitare lo scontro? Oppure i due paesi erano destinati, che lo volessero o meno, a cadere nella «trappola di Tucidide»? Il referimento era allo storico greco dell’antichità, Tucidide, che aveva scritto una storia della guerra del Peloponneso fra Sparta e Atene, giungendo a una conclusione netta: «ciò che rese la guerra inevitabile era l’ascesa di Atene e la paura che ciò generò a Sparta». Un simile automatismo poteva ripetersi, come si era ripetuto più volte nella storia, e la trappola poteva scattare di nuovo. Come evitarla, non era affatto chiaro. Alcuni esponenti della nuova amministrazione si lamentavano delle amministrazioni passate che, secondo loro, avevano guardato con troppa benevolenza alla crescita cinese, sperando che la sua integrazione nel sistema economico globale avrebbe mutato il regime comunista. Ma ciò non era accaduto. Ora bisognava governare la competizione con prudenza e mantenere una robusta presenza militare per governarla da una posizione di vantaggio. Nel suo discorso di insediamento, il 20 gennaio 2017, Trump non dava grandi indicazioni in merito. A differenza di Obama, e contro Obama, evocava una visione plumbea del posto degli Stati Uniti nel mondo, un paese di cui, a suo dire, tutti si approfittavano mentre esso stesso si impoveriva e indeboliva. Le articolazioni degli slogan della campagna elettorale, «America First» e «Let’s Make America Great Again», anche là dove si accennava alla politica estera o alla lotta al terrorismo, suggerivano un arroccamento introverso, inward-looking. Una affermazione come «non vogliamo imporre a nessuno il nostro modo di vivere, ma piuttosto lasciarlo splendere come un esempio da seguire per chi lo voglia» poteva significare una riduzione delle pretese imperiali dell’eccezionalismo americano ma anche (il che era un po’ la stessa cosa) la rinuncia a una leadership internazionale fondata su progetti ideali e politici di ampio respiro. In effetti, a sentire Trump, sembrava proprio che a cento anni esatti dal fatidico 1917, la forza propulsiva di quell’evento e quindi del «secolo degli Stati Uniti» wilsoniano si fosse esaurita. Ma poi, chissà.

Categorie:Politica estera, storiografia

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