Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Election Day non c’è più

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Pubblicato su ytali.com il 6 novembre 2016.

Dopo un secolo e mezzo di onorato servizio, dacché è stato introdotto con un atto del Congresso del 1845, Election Day come unico giorno in cui gli americani, tutti insieme, scelgono il loro presidente – non esiste più. Con l’adozione legale e il successo popolare del voto anticipato (early voting) e del voto per posta (mail-in voting), nella stragrande maggioranza degli stati il giorno delle elezioni sta diventando solo una deadline. Entro quella data va consegnata la scheda, se si vuole che la scheda conti e sia contata, sia scrutinata insieme alle altre alla chiusura dei seggi. Ma si può farlo anche prima, una settimana o due prima, anche un mese prima, dipende dagli stati, e si può farlo da lontano.

Sono molti i cittadini americani che lo fanno. Secondo l’Ufficio del Censimento, nelle elezioni presidenziali del 2012 sono stati più di 40 milioni, il 32% degli elettori, un terzo del totale. Le percentuali sono in rapida crescita, soprattutto dopo il giro del nuovo secolo: erano il 30% nel 2008, il 20% nel 2004 e appena il 7% nel 1992. Si prevede una crescita ulteriore quest’anno, verso il 40 per cento.

Il fenomeno è molto marcato nel Sud, nel Sudovest e nella West Coast. In una dozzina di stati di queste regioni, nel 2012 gli early votes erano già la maggioranza dei voti espressi. Ma anche la East Coast si sta adeguando: quest’anno si può votare così anche in Massachusetts. Il voto per posta, in particolare, è molto trendy. E’ consentito da un numero sempre maggiore di stati, spesso semplicemente allargando le maglie del voto in assenza, non chiedendo giustificazioni per il suo esercizio (“no-excuse” permanent absentee voting). Nel 2012, in California le mail ballots sono state quasi 7 milioni, il 51% del totale. E va detto che dove una giustificazione è richiesta, come nello stato di New York, non è così difficile trovarla.

Infine ci sono gli stati puri e duri, dove si vota esclusivamente per posta: l’Oregon nel 2012, anche Washington e Colorado oggi.

Con questi sistemi i cittadini preparano la scheda quando vogliono, mentre la campagna elettorale è ancora in corso. Possono farlo dove vogliono, da soli o in compagnia di famigliari, amici, compagni di lavoro, compagni di fede politica o religiosa. E poi depositare la scheda votata presso gli uffici municipali o di contea, presso speciali centri di raccolta, o in una buca delle lettere che nell’occasione sostituisce il o prende le sembianze del ballot box.

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Insomma, non c’è più Election Day, ci sono piuttosto Election Week o Election Month. E ciò ha importanti implicazioni sia simboliche che pratico-politiche.

Dal punto di vista simbolico, con il voto anticipato e diluito nel tempo scompare il giorno cerimoniale in cui i cittadini attivi si riuniscono solennemente, ordinatamente e simultaneamente in una metaforica assemblea per formare il corpo politico della repubblica – e per mettere in scena il privilegio di esercitare la sovranità. Con l’invio della scheda elettorale per posta, dopo che sia stata votata negli spazi privati di ciascuno, famigliari o quant’altro, perde di importanza anche il seggio elettorale (il “tempio” della democrazia americana, come diceva un secolo fa il giudice David Brewer): uno spazio pubblico designato dall’autorità pubblica dove i cittadini esercitano il loro diritto in segreto, protetti dallo stato, lontano da occhi o pressioni indiscrete.

In entrambi i casi, dicono alcuni, si sta pendendo il senso delle elezioni come un’impresa civica collettiva, vissuta e condivisa in contatto fisico diretto con vicini, conoscenti, estranei di status sociali e opinioni politiche diverse, in fila e in attesa di fronte a un seggio – e sigillata, alla fine della fila, da funzionari pubblici in carne e ossa. (Certo, dicono altri con un sospiro di sollievo, si elimina anche la perdita di tempo in noiose lunghe attese accanto a perfetti sconosciuti.)

Poi ci sono le implicazioni politiche immediate che queste novità possono avere per elettori, partiti e candidati.

Se nelle settimane finali di campagna elettorale decine di milioni di cittadini hanno già votato, contano sempre di meno gli sviluppi dell’ultimo momento, le October surprises che possono alterare le percezioni politiche degli elettori e quindi le loro espressioni di voto – ma non, com’è ovvio, quelle di chi già votato. Succede così che la giuria emetta il verdetto prima che il processo si sia concluso; che una rimonta tarda del candidato più debole sia impossibile perché avvenuta a giochi fatti. D’altra parte, a questo punto i partiti e i candidati hanno a disposizione un gran quantità di voti espressi, di cui non sanno la distribuzione partisan; possono tuttavia cercare di individuarla. Fra chi ha votato conducono degli exit polls, studiano la demografia o l’appartenenza di partito, laddove ciò sia noto perché richiesto per partecipare alle primarie. Sulla base di questi dati aggiustano le strategie di mobilitazione.

Secondo alcuni osservatori, early voting e mail-in voting non sono una bella cosa perché distorcono il regolare processo elettorale. Se poi c’è il sospetto che tali pratiche favoriscano un partito rispetto a un altro, allora la controversia diventa inevitabile. I repubblicani, per esempio, ritengono di esserne penalizzati, e cercano di frenarne la portata negli stati in cui hanno il potere di farlo. I democratici, al contrario, le valorizzano. Non sorprende quindi che, in questo finale di partita 2016, sia stata Hillary Clinton la più attiva (di gran lunga la più attiva) nello stimolarle e indirizzarle.

Categorie:campagna elettorale, Electoral process

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