Prima facie, la storia è semplice. Donald Trump ha fomentato per mesi la violenza e l’odio con la sua retorica violenta e razzista, e ora ne paga il fio. La gente, la gente di colore, si è stufata e ha reagito con la protesta; ha interrotto e infine in qualche modo impedito il suo comizio allo stadio della University of Illinois a Chicago. “La gente” naturalmente non esiste in natura, per noi che non abbiamo un approccio essenzialista alla storia è anche inutile dirlo. C’è stata piuttosto una mobilitazione di militanti studenteschi che si sono dati appuntamento lì, in maniera organizzata, e Chicago essendo Chicago, la cosa è riuscita piuttosto bene. Secondo le cronache, i dimostranti hanno promesso di farlo ancora. E alcuni di loro hanno inneggiato a Bernie Sanders.
Prima facie, la contro-storia è altrettanto semplice. Dove è andato a finire il Primo emendamento? Il diritto alla libertà di parola? Chi sono i veri violenti, se non coloro che hanno impedito a Trump di parlare? E’ quel che dice Trump, trionfante e soddisfatto com’è prevedibile. E’ un tema sensibile, al quale non tutti siamo sensibili allo stesso modo; chiudere la bocca agli avversari, con le buone o con le cattive, è la prima cosa che ci viene in mente, quasi in automatico. Ma proviamo a fare il classico esercizio di sanità logica e mentale, rovesciando le parti in commedia come in effetti potrebbe succedere fra qualche giorno: se gruppi organizzati interrompessero un rally di Bernie, accusandolo di fomentare l’odio di classe e di simpatie comuniste, e promettessero di farlo in modo sistematico. E se alcuni dimostranti, ciò facendo, inneggiassero a Trump.
Sanders sembra rendersi conto del pericolo. E’ stato costretto ad affermare l’ovvio, a negare che la protesta sia stata un prodotto ufficiale della sua organizzazione, malgrado le accuse di Trump. Ha preso le distanze ciurlando un po’ nel manico, o almeno così mi sembra (e lascio la frase in inglese proprio perché non so bene come tradurre quel “appreciate”): “Obviously, while I appreciate that we had supporters at Trump’s rally in Chicago, our campaign did not organize the protests.” Ma l’ha dovuto fare. Dopo tutto corre seriamente per diventare presidente degli Stati Uniti, mica di un centro sociale. E per vincere deve avere, come chiunque, una scontata vocazione maggioritaria: deve allargare il consenso. Non ha nulla da guadagnare, credo, dalla trasformazione della campagna elettorale in una prolungata rissa da bar.
Molti leftists, anche simpatizzanti di Bernie, sono tutti eccitati da questi sviluppi, sono in brodo di giuggiole. Power to the people! Azione diretta! Blocchiamo il fascista! Sono spesso gli stessi che giurano che non voterebbero Hillary Clinton neanche morti, se Bernie non dovesse avere la nomination democratica (nel caso, mi preparo a un autunno di lagne in proposito, tanto più insopportabili alla mia età). Sono anche gli stessi che non capiscono, credo, che se Bernie dovesse essere il nominee democratico, per vincere le elezioni generali avrà lui bisogno di tutto il sostegno dei Clinton Democrats (e in caso di scarso entusiasmo, mi preparo alla lagna sul loro tradimento). E forse avrà bisogno anche di qualcosa di più in voti, ohibò, moderati. Se non vuol finire come McGovern nel 1972, con le vocal minorities eroicamente in piazza e la silent majority alle urne a eleggere Nixon.
With friends like these, who needs enemies. Ma al cuor non si comanda, e l’attrazione delle piazze è fatale anche per chi le vede solo da Facebook. E poi, diciamocelo, c’è la faccenda del cuore malato di certa sinistra. Questa storia di Bernie, fino a oggi, è filata anche troppo liscia, una storia di sinistra e di crescente successo come non se ne vedono da una vita. Ci vuole ben qualcuno (di sinistra) che aspiri a mandarla in vacca.
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