Dunque Bernie Sanders ha vinto per un pelo le primarie democratiche in Michigan (49,8% contro 48,3%). Guardando più da vicino il territorio si vedono, com’è ovvio, delle differenze: in certe contee ha vinto meglio, in altre peggio, in alcune ha perso. Ha perso, per esempio, nella Wayne County che contiene Detroit e un pezzo della sua area metropolitana per un totale di 1,8 milioni di abitanti. Qui ha vinto alla grande Hillary Clinton (uno dei pochi luoghi dello stato in cui è arrivata prima) con il 60% dei voti contro il 38% di Sanders. Probabilmente grazie alla forte presenza degli afro-americani, che sono il 40,5% della popolazione.
Guardando ancora più da vicino le articolazioni del territorio della contea, altre differenze emergono anche a questo livello. Hillary ha avuto un vero trionfo, 73% a 26%, nella città di Detroit, con i suoi 680.000 abitanti in stragrande maggioranza neri (l’83%). Nella città di Dearborn lì accanto, praticamente un quartiere di Detroit, ha invece avuto una sonora sconfitta: è stato Bernie a prendere il 59% dei voti contro il suo 39%. Qui le percentuali si sono rovesciate rispetto alla contea nel suo complesso. Come mai, che cosa ha di speciale questa località?
Dearborn è una città di arabi e musulmani, la più caratterizzata in questo senso degli Stati Uniti. Nel 2010 era di discendenza araba il 40% (oggi sarà di più) dei suoi quasi 100.000 abitanti. Ci sono molti libanesi cristiani maroniti, alcuni di loro bisnipoti dei primi arrivati un secolo fa, attratti dal lavoro nelle fabbriche di automobili (qui aveva casa Henry Ford, e qui ancora oggi ha sede il quartier generale mondiale della Ford Motor Company). Ci sono poi palestinesi, yemeniti e iracheni, immigrati più recenti in maggioranza musulmani ma anche cattolici caldei, in fuga dai disastri del Medio oriente.
La città ha la vita normale di una comunità di immigrati. Si parla e si mangia arabo, ci sono donne con l’hijab, c’è il settimanale bilingue Arab American News. C’è l’Arab American National Museum, una istituzione di rilevanza appunto nazionale. All’appropriato indirizzo di Ford Road c’è l’Islamic Center of America, la più grande moschea del paese. E dal gennaio 2014 quattro dei sette membri del consiglio comunale sono di origine libanese, due cristiani e due musulmani shiiti. Fra loro c’è Susan Dabaja, una giovane avvocata shiita sponsorizzata dal Democratic Club, che è anche la council president.
Insomma, gli arabi governano Dearborn? Il sindaco non è arabo, è un Jack O’Reilly, ma fa lo stesso. La notizia fasulla messa in giro da un periodico satirico, secondo cui in città sarebbe stata introdotta la Sharia, è stata creduta vera da molti, fuori città. Prima ancora c’erano state controversie sulla libertà di parola e manifestazione, quando gruppi fondamentalisti cristiani avevano rivendicato il diritto di dire cose anti-islamiche ai margini di un festival arabo o di fronte all’Islamic Center. Controversie classiche con un unico risultato possibile: malgrado le proteste locali, sì, avevano questo diritto.
I residenti mantengono stretti rapporti con i paesi d’origine, talvolta con conseguenze tragiche. Il 12 novembre 2015 alcuni di loro o loro parenti sono rimasti vittime di un sanguinoso attentato suicida dell’Isis a Beirut. Leila Mazloum in particolare aveva ottenuto la green card ed era tornata in patria a prendere la famiglia; si era trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Per la gente di Dearborn i morti di Beirut non sono stati oscurati da quelli degli attentati di Parigi del giorno dopo. Ma la cosa ha avuto solo rilevanza locale: per loro, come spesso accade per gli immigrati, il rapporto vicino/lontano è diverso da quello dell’ambiente che li circonda.
E comunque è qui, in questo contesto, che Sanders ha avuto successo. Chi sia stato davvero a sostenerlo non è scientificamente dimostrabile, l’analisi statistica non arriva a tanto. Dei 60.000 elettori registrati in città, 20.000 hanno partecipato alle primarie, 12.000 a quelle democratiche – e più di 7000 hanno votato per Bernie. Quanti di loro siano arabi o musulmani non si sa, soprattutto in mancanza di dati seggio per seggio. E’ tuttavia probabile che molti lo siano stati, perché così ci informano aneddoticamente i media locali che hanno intervistato i cittadini in fila alle polling stations. E perché così racconta la cronaca politica delle ultime settimane.
Sanders si è dato molto da fare. Ha incontrato i leader della comunità, ha rilanciato i suoi messaggi anti-islamofobici, anche in uno spot alla radio araba. Ha parlato in un teatro stracolmo, presentato dal deputato nero del Minnesota Keith Ellison, il primo musulmano eletto in Congresso. E ha raccolto l’endorsement dell’Arab American News, che ha apprezzato i suoi appelli contro le diseguaglianze economiche (anche la città ne soffre) e per una “equa” politica medio-orientale (non fidandosi delle “inclinazioni interventiste” di Hillary). La conclusione del periodico, ripetuta dagli attivisti ai seggi, è stata netta e ha avuto eco a livello nazionale.
La conclusione è questa. “Sanders è un ebreo americano. Questo giornale e questa comunità non hanno pregiudizi nei confronti delle affiliazioni etniche o religiose di alcuno. Ciò che conta sono le idee”.
E gli 8000 cittadini che hanno partecipato alle primarie repubblicane? E che hanno fatto vincere anche qui Donald Trump (con il 39%) seguito da John Kasich (30%) e Ted Cruz (18%)? Non saranno stati anche loro arabi? Di nuovo, non lo sappiamo con certezza. Certo è che la comunità araba non è un monolite. I leader cristiani, soprattutto caldei iracheni, si sono fatti sentire con i candidati del GOP esprimendo preoccupazione per il destino dei correligionari in Medio oriente. Sono arrabbiati con il presidente Obama che secondo loro non fa niente. E ciò avrà pure avuto qualche effetto sul comportamento elettorale di qualcuno.
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