I democratici devono assolutamente vincere le elezioni presidenziali del 2016. Devono mantenere a tutti i costi il controllo della Casa bianca, se vogliono continuare a essere rilevanti nella politica nazionale. Perché al di sotto della politica presidenziale il partito è, per il momento, in uno stato piuttosto disastroso. E rischia di restarlo nell’immediato futuro – in attesa dei cambiamenti demografici che, almeno in teoria, dovrebbero favorirlo nel futuro meno immediato (e che già lo stanno favorendo nelle grandi città).
Ciò è anche troppo evidente, e ben noto, a livello congressuale. Dacché Barack Obama è diventato presidente, dal 2008 a oggi, i democratici hanno perso il controllo di entrambi i rami del Congresso: della Camera dei rappresentanti nel 2010, del Senato nel 2014. Ma più ancora del fatto in sè (il governo diviso è piuttosto frequente nella storia del paese), è il numero dei seggi perduti a essere clamoroso: una settantina alla Camera, su un totale di 435, e al Senato una dozzina su un totale di 100.
Un simile capitombolo non si vedeva da decenni.
Ciò che è meno evidente a chi guarda solo alla scena politica di Washington, e tanto più se lo fa dall’estero, è che dietro la conquista repubblicana del Congresso c’è il vero elemento di forza del Grand Old Party, e cioè la sua rapida conquista del predominio nei governi dei singoli stati dell’unione. Anche qui, per i democratici, c’è stata una frana post-2008 piuttosto inedita. Con numeri anche qui clamorosi.
Oggi i repubblicani controllano in toto il potere legislativo, cioè entrambe le camere, in 30 stati su 50: più del doppio di quanto accadesse nel 2008. Eleggono il governatore di 32 stati: 11 in più del 2008 (l’ultimo ha strappato il posto a un democratico in Kentucky il 3 novembre scorso). Nel complesso hanno il pieno controllo del governo, cioè sia dell’esecutivo che di tutto il legislativo, in ben 24 stati, praticamente la metà.
Ai democratici restano i resti. Hanno il pieno controllo del governo solo in 7 stati, fra i quali spicca la California. In stati in cui sono o meglio erano tradizionalmente forti si ritrovano in condizioni di governo diviso. Il governatore democratico di New York, Andrew Cuomo, ha una Camera democratica ma un Senato repubblicano, sia pure per un solo seggio. In Illinois, Massachusetts e New Jersey entrambe le camere sono democratiche – ma il governatore è repubblicano.
Le ragioni dei successi repubblicani sono molteplici. Alcune sono oggettive: per esempio, continua il consolidamento del Grand Old Party negli stati del sud, oppure in quegli stati del nord dove ha acquisito il voto di pezzi importanti di classe operaia bianca. In entrambi i casi scalzando roccaforti storiche del partito democratico. Ma ci sono anche ragioni soggettive, organizzative.
I repubblicani hanno investito nelle attività statali molte risorse umane, finanziarie, politiche. L’hanno fatto in maniera massiccia dopo l’elezione di Obama, contando sulla rabbia reattiva e l’entusiasmo dei militanti dei Tea Party e sui soldi dei grandi donatori conservatori. Hanno creato infrastrutture di partito, sviluppato nuove leadership politiche, mobilitato gli elettori in tutte le elezioni: locali, statali e nazionali anche di medio termine.
I democratici no.
Nel 2005 il chairman del Democratic National Committee, Howard Dean, ci aveva provato. Aveva lanciato una fifty state strategy, proponendo di fare lavoro di party building ovunque, anche negli stati più irrimediabilmente repubblicani, perché oggi sono così ma domani chissà; e di organizzarsi per competere a tutte le cariche a tutti i livelli del sistema federale. Ma poi il progetto si è arenato, Dean se n’è andato, e i democratici sono tornati a fare quello che sanno fare meglio: partecipare con impegno alle corse più sexy, tipo la presidenza, e disertare per noia le altre.
I repubblicani hanno così un vantaggio strutturale.
Controllando tanti governi degli stati, essi controllano la burocrazia elettorale, che è statale anche quando gestisce le elezioni federali per il Congresso. Sono inoltre le assemblee statali a decidere le modalità di voto, l’obbligo di photo ID per gli elettori, i confini dei collegi elettorali. Il redistricting, cioè l’adeguamento dei collegi della Camera dei rappresentanti alla distribuzione della popolazione ri-contata ogni dieci anni dai censimenti, è un’operazione raffinata che porta sostanziosi benefici elettorali a chi la fa – cioè a chi governa in loco.
Avendo investito nella politica statale, i repubblicani hanno anche creato un pool di personale politico che si è fatto le ossa nel lavoro esecutivo e legislativo locale, da cui possono sperare di reclutare una nuova dirigenza nazionale. A livello presidenziale, a giudicare dai dibattiti pre-primarie, la giovane leadership repubblicana fa fatica a emergere, a distinguersi e imporsi per capacità e personalità. E tuttavia fra i democratici non emerge per niente – se si pensa che, dopo l’exploit giovanilista di Obama, il partito si sta affidando a due settantenni.
A livello congressuale, invece, il partito repubblicano sembra avere stabilizzato il suo predominio proprio sull’onda delle vittorie nei collegi locali alla Camera e statali al Senato. Difficile pensare a una sua imminente debacle. Se conquisterà anche la presidenza, avrà il pieno governo del paese. Ed è proprio questo che il partito democratico, se vuole continuare ad avere voce in capitolo, deve assolutamente impedire.
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