Ma insomma, secondo la Costituzione degli Stati Uniti, non dovrebbe essere il Senato a ratificare i trattati internazionali firmati dal presidente? E non dovrebbe ratificarli con il voto dei due terzi dei suoi membri? Cioè, nel caso dell’accordo multilaterale sulle armi nucleari con l’Iran, non dovrebbe essere Barack Obama ad avere l’obbligo di cercare il consenso di 67 senatori – per incassare, appunto, il suo Iran deal?
Un’impresa che, dati i tempi, sarebbe impossibile.
E infatti le cose non vanno così.
Le procedure che il Congresso sta seguendo nel discutere la faccenda sono diverse. E ciò è accaduto grazie a un paio di astute operazioni di convenienza: mi sembra, alla fine, così a occhio e croce, nell’interesse di tutte le parti in causa.
La prima astuta operazione è dell’amministrazione Obama. Fin dall’inizio, l’accordo multilaterale è stato presentato non come un trattato internazionale bensì come a political agreement, un accordo politico fra governi. Perché? Ma perché è la cosa più semplice da fare con un paese con il quale non abbiamo rapporti diplomatici: così ha ripetuto il Segretario di stato John Kerry in una audizione di fronte al Foreign Affairs Committee della Camera, il 28 luglio scorso, ad accordo fatto.
In quell’occasione Kerry ha anche detto un’altra cosa, più secca: non lo consideriamo un trattato perché «francamente, è diventato fisicamente impossibile [farne approvare uno in Senato]. Ecco perché». E ha ragione, in effetti il Senato è un cimitero di trattati internazionali sottoscritti dai presidenti ma mai ratificati, da decenni. A cominciare, per dire, dalla Convention on the Elimination of Discrimination against Women, firmata da Carter nel 1980, una delle tante ancora in sospeso.
La seconda astuta operazione è dell’opposizione repubblicana. Che ha detto: va bene, è un accordo politico, quindi sottratto alla ratifica senatoriale; ma vogliamo comunque che il Congresso possa dire la sua. Su iniziativa di Bob Corker, presidente del Foreign Relations Committee del Senato, nel maggio scorso ha così approvato una legge in proposito, l’Iran Nuclear Agreement Review Act. Che è stata votata anche dai democratici, quindi praticamente da tutti. E anche Obama non si è opposto – con buone ragioni.
La legge infatti stabilisce che il testo dell’accordo deve essere sottoposto al giudizio di entrambe le assemblee legislative, che hanno il diritto di approvarlo o respingerlo. Ma chiarisce che se il Congresso non passa una joint resolution of disapproval entro 30 o 60 giorni (60 giorni nel caso, che si è poi verificato, in cui l’accordo sia perfezionato nella pausa estiva, fra il 10 luglio e il 7 settembre), l’accordo entra in vigore comunque e le sanzioni all’Iran possono essere sospese. E qui sta il trucco.
Una risoluzione di disapprovazione passa facile alla Camera, dove i repubblicani hanno una maggioranza senza problemi. Ma al Senato può essere bloccata dall’ostruzionismo dell’opposizione democratica. L’ostruzionismo è superabile solo con il voto di tre quinti dei senatori, cioè di 60 di loro; e i repubblicani ne hanno solo 54. Ai democratici, dunque, bastano 41 voti per impedire che la resolution of disapproval sia messa ai voti e approvata. Con ciò rendendo automatica l’entrata in vigore dell’accordo.
Per questo, l’8 settembre scorso, la notizia che il numero dei senatori democratici favorevoli all’Iran deal ha raggiunto la magica soglia di 41 è stata accolta con giubilo alla Casa bianca. L’ostruzionismo è ora possibile, sembra sicuro che vincerà. Obama pensa di avere l’accordo in tasca; contro il Congresso non dovrà usare l’arma politicamente sgradevole del veto. Mentre gli ultra-conservatori sono inviperiti con la leadership congressuale repubblicana che, per troppa astuzia, si è confezionata una trappola con le proprie mani.
Infatti, per riassumere in termini politici. La Costituzione attribuisce al presidente l’onere di trovare 67 senatori che ratifichino un suo trattato internazionale. Con la faccenda del political agreement e con la procedura inventata dal senatore Corker, l’onere è rovesciato: è il Senato che deve trovare 60 senatori che blocchino il presidente.
Ma forse, alla fine della giornata, va bene a tutti così. Obama avrà il suo trattato, scusate la parola. E i repubblicani avranno la loro dura opposizione, uno show retorico senza conseguenze pratiche imbarazzanti per il paese.
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