Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo?

19504_lgPerché negli Stati Uniti non c’è il socialismo? Conflitti sociali, vita politica e scarti temporali nell’America di fine Ottocento.

Il titolo di questo mio contributo, Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo?, cita ovviamente il noto saggio di Werner Sombart del 1906. Un saggio notissimo proprio grazie a questo titolo, che ha avuto molta più fortuna del libro stesso. Un titolo (il titolo, più del libro) che nel corso del Novecento ha evocato una questione centrale, spesso ritenuta la questione centrale della diversità americana rispetto all’Europa – ovvero, per essere più precisi, la questione della diversità dello sviluppo politico statunitense rispetto a quello dei paesi europei comparabili, e quindi della mancanza negli Stati Uniti di un significativo movimento o partito di tipo socialista o laburista e di rilevanza nazionale. E’ anche un titolo che, per molti osservatori del secolo scorso, ha evocato l’esistenza di almeno due diverse ipotesi di modernità politico-sociale nell’Occidente transatlantico – ovvero in quell’area estesa, fra il Vecchio mondo che era stato il centro propulsore dell’espansione e il Nuovo mondo che era parte di una periferia diasporica che stava diventando nuovo centro, che Tiziano Bonazzi ha definito Grande Europa.

Due ipotesi di modernità diverse e per molti versi contrapposte.

Dal punto di vista dei socialisti europei, e Sombart si considerava ancora tale, ma anche dal punto di vista dei socialisti americani, che pure esistevano nella loro marginalità, l’interrogativo si basava su un presupposto teorico che riassumo grossolanamente così (con l’aiuto del marxismo determinista di fine Ottocento e inizio Novecento): la modernità occidentale nei paesi capitalistici industrializzati non può non includere, deve necessariamente includere, lo sviluppo di una classe operaia con una forte coscienza di classe e, di conseguenza, con una forte organizzazione economica di classe e una politica indipendente incarnata in un partito a base di classe. Negli Stati Uniti, che secondo Sombart erano la “terra promessa” del capitalismo, la società capitalistica pura, perfetta – ciò sembrava non accadere. E quindi, ci si chiedeva, cosa c’era di sbagliato negli Stati Uniti?

Dal punto di vista di altri osservatori, soprattutto americani ma non solo, conservatori o liberali che fossero, l’interrogativo si basava su un altro presupposto teorico, che di nuovo riassumo grossolanamente (questa volta con l’aiuto di alcuni importanti scienziati politici degli anni cinquanta del Novecento, Louis Hartz e Daniel Bell): la coscienza di classe, il socialismo, le idee socialiste, sono relitti del passato, residui feudali, castali, dell’ancien régime europeo, che anche in Europa verranno presto o tardi travolti dall’inevitabile progresso storico verso una società compiutamente liberale. Gli Stati Uniti sono già arrivati a questa meta, anzi ci sono sempre stati, fin dalle origini: sono una società “nata libera”, e per questo sono diversi. Negli Stati Uniti il movimento socialista non ha attecchito e non attecchirà mai: è «intrappolato dallo spiacevole problema di vivere nel mondo, ma non del mondo»; può «solo agire, e in maniera inadeguata, come l’uomo morale, ma non l’uomo politico, nella società immorale». L’America è l’essenza della modernità liberale, è l’Europa a essere una anomalia. Che cosa c’è di sbagliato con l’Europa?

Il dibattito su questi temi è stato un dibattito novecentesco, ed è stato ovviamente denso di implicazioni politiche oltre che storiografiche; e lo abbandono subito per venire al tema della discussione presentata in questo volume, che riguarda la seconda metà dell’Ottocento. Voglio solo sottolineare che è nel Novecento che, sembra di capire, è nato il termine che definisce sinteticamente la questione, “eccezionalismo americano”. E che la sua nascita non è priva di ironia: essa avvenne infatti negli ambienti della Terza internazionale comunista. Gli “eccezionalisti americani” erano quei rivoluzionari comunisti che, negli anni venti, sostenevano che negli Stati Uniti non si potesse fare come in Russia, e neanche come nell’Europa sviluppata, perché il capitalismo americano era diverso, era un’eccezione. L’eccezionalismo americano, in quanto invenzione linguistica, viene dunque al mondo come una eresia marxista – ed è inutile aggiungere che gli eretici furono tutti epurati dal Comintern e dall’American Communist Party.

Naturalmente, pur senza quel nome, “eccezionalismo americano”, la convinzione della diversità strutturale, della unicità storica dell’esperienza americana, era diffusa nelle culture politiche delle radici coloniali del paese, e poi del suo atto di nascita rivoluzionario. Anzi, direi che nel suo mix moderno di linguaggio religioso provvidenziale e linguaggio profetico secolare, di messaggio di indipendenza nazionale e di liberazione universale, questa idea emerge compiutamente con la Rivoluzione americana. Da questo punto di vista, l’idea americana è comparabile più da vicino, in modo più specifico, e più utilmente, non con una vaga idea europea ma con l’esperienza della Rivoluzione francese: una rivoluzione nazionale che pensava di parlare un linguaggio universale, e che esprimeva l’altro eccezionalismo rivoluzionario, l’eccezionalismo francese. Da un punto di vista più generale, tuttavia, ed entrando nell’Ottocento, mi sembra che in tutti i nazionalismi europei siano rintracciabili molti elementi di questo discorso.

Ciascun nazionalismo tendeva a esaltare le virtù irripetibili della propria nazione di riferimento, il suo carattere esemplare e deviante rispetto alla somma delle esperienze altrui, la sua vocazione a costruirsi (inventarsi) un passato speciale e a mettere un’ipoteca sul futuro dell’umanità, e quindi, alla fine, a rivendicare un qualche diritto al primato – primato economico o politico, culturale o spirituale, a seconda delle risorse che ciascuno aveva a disposizione. C’erano parecchie “città sulla collina” nel mondo transatlantico di allora; e cias­cuna cercava di irradiare la sua luce con un corredo di miti delle origini che suggerivano idee di missione, destino, provvidenza, progresso, necessità storica – tutte invocazioni che vogliono dire la stessa cosa. In questo, l’eccezionalismo nazionalista americano non era affatto una eccezione. Anch’esso condivideva i tratti descritti e prescritti da Ernest Renan in Che cos’è una nazione?: «Nel passato, un’eredità di gloria e di rimpianti da condividere, per l’avvenire uno stesso programma da realizzare».

E infatti, negli Stati Uniti, il discorso sulla costruzione della nazione, e il discorso sulla sua peculiare modernità americana, cioè non-europea, si intrecciano proprio nei gruppi nazionalisti Repubblicani che condussero e vinsero la Guerra civile e che, nel dopoguerra, divennero il nuovo ceto dirigente del paese più o meno riunificato. Continua a leggere quiil saggio completo su Academia.edu.

Da Arnaldo Testi, “Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo? Conflitti sociali, vita politica e scarti temporali nell’America di fine Ottocento”, in Nazionalizzazione e modernità. Italia, Europa e Stati Uniti (1861-1901), a cura di Tiziano Bonazzi, Daniele Fiorentino e Annunziata Nobile, Aracne Editrice, Roma, 2014, pp. 191-202.

Categorie:Americanismo, partiti

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1 risposta

  1. Molto interessante! Degna di nota anche la vicenda dell’AFL!

    Guglielmo
    http://www.ilruggitodellapecora.wordpress.com

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