La più popolare canzone americana di Natale, White Christmas, è una sorta di inno secolare, laico, non religioso. E’ stata scritta dall’immigrato ebreo Irving Berlin, nato Israel Isidore Baline nel 1888 in Russia, figlio di un cantore di sinagoga, diventato grande songwriter negli Stati Uniti (vedi qui il post su God Bless America). E non parla della nascita di Gesù. Parla piuttosto di nostalgia per un luogo e un tempo lontano, di alberi sempreverdi, di neve e slitte con i campanelli, di christmas cards e bambini. Evoca le pulsioni emotive della stagione festiva in chiave sentimentale (casa e famiglia) e sottilmente patriottica (il desiderio di un mitico passato in stile New England). La nostalgia contribuì a rendere la canzone popolarissima, appena uscì nel 1941-42, fra i soldati che partivano per il fronte, verso l’Europa e il Pacifico. Il tono sentimentale contribuì a farne un momento d’evasione dagli affanni persistenti della Grande Depressione e da quelli della guerra.
Berlin ebbe l’idea di White Christmas mentre lavorava a Hollywood e la moglie e le figlie erano a New York. La moglie era cattolica, e di solito festeggiavano insieme il Natale. I versi iniziali, spesso non eseguiti – ma ci sono, per esempio, in questa versione di Barbra Streisand – annunciano la voglia di essere non nella solare California bensì “sù al Nord”, nella innevata East Coast. Con altre sue canzoni sulle feste nazionali, in particolare Easter Parade (in cui non si parla della resurrezione di Gesù), fu inserita in Holiday Inn, un film musicale del 1942 con Fred Astaire e Bing Crosby. Vinse l’Oscar come miglior canzone, e iniziò una carriera di longseller di enormi proporzioni. Il disco con la versione originale di Crosby ha venduto da allora più di 50 milioni di copie, probabilmente il singolo che ha venduto di più di tutti i tempi. Inoltre è stata registrata da moltissimi altri interpreti.
Berlin non è stato l’unico compositore ebreo-americano a trovare nella stagione natalizia, e nelle ricorrenze festive in generale, una opportunità per guadagnarsi da vivere. Molti altri come lui hanno scritto canzoni di Natale, alcune delle quali sono entrate nel canone nazionale – da Let It Snow, Let It Snow, Let It Snow (1945) e Rudolph the Red Nose Reindeer (1949) fino al rock’n’roll di Christmas (Baby Please Come Home). Nell’industria della musica popolare del Novecento, da Broadway al vaudeville, dai dischi alla radio al cinema, era questo un campo assai redditizio. E l’industria era dominata da artisti e produttori immigrati che stavano riscrivendo l’American Songbook da una prospettiva esterna e originale. Re-immaginavano le feste americane di impronta cristiano-protestante sottilineandone la dimensione folklorica e lasciando sullo sfondo quella religiosa. Scrivevano per il mercato dei consumi di massa, e ne furono premiati.
Moltissimi di questi artisti e produttori immigrati erano appunto ebrei, esterni anche alla religione cristiana (per “l’unica canzone di Natale non scritta da un ebreo”, almeno secondo The Big Bang Theory, vedi qui). Il Natale era per loro privo di senso. Anzi, nei paesi di provenienza, in Europa orientale, era un giorno di paura, occasione di pogrom da parte dei vicini cristiani. Nell’ambiente più rilassato e accogliente degli Stati Uniti, lo reinterpretarono come una festa del solstizio d’inverno, di fratellanza e benevolenza, di abbondanza e tavole imbandite, di riunioni famigliari e doni, di candele, renne e neve – tanta neve. Vi rifusero anche un po’ dello spirito di Hanukkah, la loro festività invernale delle luci che era poco importante nell’Ottocento ma che fu rivitalizzata e trasformata. Da celebrazione di rivolta e libertà riconquistata, divenne anch’essa celebrazione di pace, famiglia, comunità. Una sorta di Natale ebraico, di kosher Christmas.
La secolarizzazione del Natale è stata accolta con disappunto dalle persone più religiose, che hanno visto i nuovi simboli e i nuovi rituali sovrapporsi a quelli legati alla nascita di Gesù Cristo, e alla fine sostituirli nella pubblica piazza. Fino al punto di creare una nuova tradizione che sembra la tradizione americana tout court, agli americani così come al mondo intero – che in parte l’ha pure assorbita e fatta propria, grazie al soft power della cultura statunitense nel Novecento. Nelle denunce, e nella realtà, la secolarizzazione si è accompagnata alla commercializzazione (basti pensare alla figura di Santa Claus e al suo uso da parte di celebri marche di bevande). In una società di immigrati e di diverse fedi religiose, le due cose, secolarizzazione e commercializzazione, sono probabilmente necessarie l’una all’altra. Sono anche utili a tutti, per favorire la convivenza civile.
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