Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Lenin a Manhattan: i Rockefeller e il comunista messicano (1933)

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Diego Rivera, “Man, Controller of the Universe,” Palacio de Bellas Artes, Ciudad de México. 1934

La scena madre è piuttosto nota. Siamo nella primavera del 1933, nell’atrio di uno degli edifici del nuovo Rockefeller Center in costruzione, nel centro di Manhattan. Il celebre pittore comunista messicano Diego Rivera, in città con la moglie Frida Kahlo, vi sta dipingendo una grande parete intitolata “Man at the Crossroads”: l’uomo, l’umanità al crocevia fra scienza moderna e superstizione, fra macchine e fabbriche capitalistiche e utopia socialista, fra ricchi debosciati e proletari in rivolta. Fra i tanti personaggi, compare a un certo punto la faccia ben riconoscibile di Lenin. Il giovane Nelson Rockefeller gli ordina di cancellarla pena la distruzione dell’intera opera. Rivera orgogliosamente rifiuta. Il murale viene distrutto, raschiato via senza pietà.

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L’incidente è facile da drammatizzare, ed è stato drammatizzato in un paio di film di qualche anno fa. In Cradle Will Rock ovvero Il prezzo della libertà (1999), di Tim Robbins, Diego è Ruben Blades e Nelson è John Cusack – e la clip si può vedere qui. In Frida (2002), il biopic di Julie Taymor su Kahlo, gli attori sono invece Alfred Molina e Edward Norton – ma la clip non sono riuscito a trovarla. I significati simbolici del dialogo-scontro sono fin troppo evidenti, elementari. La libertà artistica contro l’arroganza del denaro. Il comunista contro la personificazione stessa del capitalismo monopolista e predatorio. La rappresentazione della lotta di classe cancellata dal cuore della metropoli arci-capitalistica. Tutto ciò nel mezzo dei conflitti sociali della Grande depressione.

La storia, come spesso succede, è un po’ più complicata. Intanto, che cosa ci fa un comunista messicano in America? Rivera era venuto con Kahlo, come si dice in Frida, alla “conquista di Gringolandia”. Era venuto a dipingere i suoi famosi murali, i quali, per loro natura, devono essere commissionati da istituzioni pubbliche o da patrons privati con molti soldi. E così a San Francisco aveva decorato la California School of Fine Arts ma anche, ahimé, il palazzo della borsa locale. Poi era stata la volta del Detroit Institute of Arts. Qui il suo lavoro “Detroit Industry” era stato attaccato come propaganda comunista, ma alla fine era stato accettato dal suo finanziatore – Edsel Ford, cioè il figlio di Henry Ford. Infine eccolo che arriva a New York, alla corte dei Rockefeller.

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Rivera and Kahlo kiss on scaffolding used by Rivera to create the “Detroit Industry” murals at the Detroit Institute of Arts in 1932. Detroit Institute of Arts.

E quindi, che cosa ci fanno i Rockefeller con un comunista? Tutta colpa di Abby Rockefeller, la moglie di John D. Rockefeller, Jr., erede del fondatore della dinastia. Abby, signora carismatica di forti passioni artistiche e larghe vedute, aveva da poco fondato il Museum of Modern Art. E il suo MoMA aveva già ospitato Rivera con una mostra personale di grande successo. Ora che si sta completando il RCA Building del Rockefeller Center, invita tre artisti internazionali a fare proposte per decorarne la lobby: Picasso, Matisse e il nostro. Tutti rifiutano, ma alla fine Abby e suo figlio Nelson, allora venticinquenne, convincono Rivera della bontà dell’impresa, e lo impongono al management dell’edificio – recalcitrante per ragioni ideologiche e commerciali (mica per niente, ma deve affittare i locali al big business).

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Frida Kahlo and Diego Rivera photographed in Manhattan by Carl Van Vechten. Library of Congress, Prints and Photographs Division.

Nel marzo 1933 Rivera si mette al lavoro. Le prime controversie lo riguardano in quanto straniero. Perché chiamare lui, ma anche Picasso o Matisse, per produrre una illustrazione della vita americana? Gli artisti americani non vanno forse bene? Poi scoppia la grana politica. Anche per colpa dei giornali. Naturalmente Rivera aveva presentato dei disegni, dei bozzetti, che erano stati approvati. Ma in corso d’opera li cambia, come fa spesso. Alla fine di aprile un reporter del New York World-Telegram visita il cantiere e scrive un articolo infiammato, “Rivera dipinge scene di attività comuniste e John D. Rockefeller paga il conto”. C’è troppo rosso, in quell’affresco. Qualche giorno dopo si scopre una nuova aggiunta ancora più scandalosa: il ritratto di Lenin. E’ allora che comincia “the battle of Rockefeller Center”.

Ma non c’è alcuna scena madre come quella entrata nella leggenda, e nel cinema. Nelson Rockefeller scrive a Rivera, gli esprime ammirazione per il suo lavoro, ma gli chiede di sostituire Lenin, perché Lenin “potrebbe seriamente offendere molta gente”. Il pittore rifiuta. Propone, come compromesso, di bilanciare il rivoluzionario russo con l’immagine di un grande americano, tipo Lincoln. A questo punto è il management commerciale dell’edificio a prendere in mano la faccenda, gli affari sono affari: mette alla porta Rivera, gli paga il compenso dovuto (per un totale di $21.000) e copre la sua opera con una tela. Il murale resta così per mesi, mentre Abby e Nelson cercano di salvarlo trasferendolo al MoMA – ma non ci sono tecniche adatte per farlo. Il 9 febbraio 1934 è infine fatto a pezzi e gettato via.

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Quando Rivera è licenziato ci sono proteste, picchetti operai, assemblee, appelli di artisti e intellettuali. Rivera è sui giornali ogni giorno, e non gli dispiace. Dice di essere venuto negli Stati Uniti proprio per questo, per usare la sua arte come un grimaldello politico in un grande paese industrializzato: “Per arrivare qui ho dovuto fare come si fa in guerra. Talvolta in guerra un uomo deve travestirsi da albero. I miei dipinti in questo paese sono diventati sempre più espliciti”. A un dinner party elegante nell’Upper West Side intellettuale e newdealista (Roosevelt è entrato in carica da pochi mesi) dice fra gli applausi: “Il ruolo dell’artista è di condensare in sé tutte le condizioni sociali e metterle in forma tale, contro ogni opposizione dei grandi interessi, da mostrarle per quello che sono all’intero mondo”.

E i comunisti, che cosa hanno da dire in una controversia che sembra fatta apposta per loro? Be’, sono divisi, e di animo diviso. Anche perché Rivera era stato espulso dal partito messicano quattro anni prima. Il partito americano lo aveva attaccato per questo, e per aver accettato commissioni dal governo “fascista” del suo paese. Lo aveva definito “un rinnegato e un contro-rivoluzionario” coccolato dalla borghesia. Ora rincara la dose: è “l’artista di Morgan, di Rockefeller, di Ford, mentre una volta era l’artista dei lavoratori e dei contadini”. Il John Reed Club protesta dunque contro il “vandalismo dei Rockefeller” – ma ce l’ha su con Rivera per essersi venduto a Wall Street. Tendono più facilmente a difenderlo i comunisti dissenti, i trotskisti e i Lovestoneites (chi essi siano, ne parliamo un’altra volta).

E infine: il murale esiste ancora. Sia pure altrove, in scala ridotta, e con un nuovo titolo: “Man, Controller of the Universe”. Sulla base dei suoi disegni, e di fotografie in bianco e nero scattate durante i lavori, Rivera lo ricrea subito, già nel 1934, nel Palacio de Bellas Artes di Ciudad de México. Sembra che ci tenesse molto, per ripicca sia nei confronti dei vandali capitalisti che dei comunisti che lo consideravano un pittore per milionari; è probabile che l’intransigenza mostrata nella battaglia del Rockefeller Center fosse un modo per riguadagnare la credibilità rivoluzionaria perduta. Qui c’è Lenin, naturalmente, e c’è anche Trotsky, e anche Marx e Engels. E c’è anche John D. Rockefeller, Jr., un uomo da sempre astemio e di vita sobria, ritratto in un nightclub mentre si beve un cocktail tenendosi per mano con una (giovane?) donna.

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Categorie:cinema, Cultura politica

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