Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

“La battaglia di Algeri” in America

battleofalgiers_1shr04«Ogni generazione dovrebbe vedere e ri-vedere La battaglia di Algeri», ha scritto Tom Hayden su The Nation. E non solo per le sue qualità estetiche: il film è tuttora emozionante, il ritmo è incalzante, i visi dei protagonisti presi dalla strada sono straordinari, la fotografia in bianco e nero da cinema verité è splendida. Ma è la sua complessità politica e morale che affascina, fa discutere, e fa sì che i cinema d’essai negli Stati Uniti lo ripropongano con regolarità. Una versione restaurata è in circolazione dal 2004, con questa presentazione del distributore Rialto Pictures: «Algeri sembra essere tolta di peso dalle cronache di oggi – dagli attentati casuali alla raggelante dichiarazione del comandante francese che per combattere il terrorismo “dovete accettare tutte le conseguenze”». L’edizione in DVD (qui il trailer) annuncia: «il film è uno studio sulla guerra moderna, con gli attacchi terroristici e le brutali tecniche usate per combatterli. Il tour de force di Pontecorvo ha oggi una rilevanza sconcertante». Algeri è vicina, insomma.

Il capolavoro di Gillo Pontecorvo ha in effetti avuto una peculiare storia americana, con almeno due momenti di particolare intensità. Il primo momento è stato negli anni sessanta. La battaglia di Algeri fu proiettato all’apertura del New York Film Festival nel settembre 1967, e ottenne la candidatura agli Oscar come migliore film straniero, migliore sceneggiatura e migliore regia. Per i cinefili era un prodotto della grande tradizione del neo-realismo italiano intrecciata con quella della Nouvelle Vague francese; trasferiva la lezione di film come Roma città aperta e La terra trema nell’arena del Terzo Mondo colonizzato, nel mondo de I dannati della terra di Franz Fanon. Molti recensori fecero considerazioni più politiche e legate all’attualità. Fecero connessioni fra l’Algeria e il Vietnam, o fra Algeri e i riots razziali scoppiati l’estate precendente nei quartieri neri di Newark e Detroit – nei sottotitoli inglesi, «casbah» era talvolta tradotto «ghetto».

Le connessioni furono fatte anche dal pubblico, dai militanti di sinistra, dalle autorità dell’establishment politico-militare. In alcune sale gli spettatori afroamericani esultavano ogni volta che gli algerini colpivano il nemico francese. In alcuni scontri di strada, gli studenti più radicali cominciarono a ululare grida di guerra come gli insorti della casbah. Il film fu fonte di ispirazione e manuale di addestramento all’organizzazione clandestina per le Pantere Nere e per i Weathermen, il gruppo rivoluzionario bianco che voleva portare la guerra di guerriglia nel cuore dell’impero. Fu proiettato durante un processo contro tredici Pantere Nere, accusate di cospirazione e incitamento alla violenza contro la polizia; presentato dall’accusa come una prova a carico degli imputati, contribuì invece alla loro assoluzione perché, come disse più tardi un membro della giuria, lo aiutò a capire il punto di vista della difesa. Fu infine studiato e discusso negli uffici del Fbi e dei servizi segreti delle forze armate, che si occupavano di contro-guerriglia.

Il secondo momento è stato subito dopo l’inizio della guerra americana in Iraq. Nell’estate 2003 il dipartimento della difesa invitò i suoi funzionari a studiare La battaglia di Algeri, e l’invito diceva: «Come vincere una battaglia contro il 
terrorismo e perdere la guerra delle idee. Bambini uccidono soldati a bruciapelo. Donne mettono bombe nei caffé. Ben presto l’intera popolazione araba esplode. Suona familiare? I francesi hanno un piano. Ha successo tatticamente, ma fallisce strategicamente. Per capire perché, venite a vedere una rara proiezione di questo film». Gli strateghi del Pentagono cercavano spunti di riflessione su come combattere la guerriglia irachena e il terrorismo, su come, appunto, vincere la battaglia senza perdere la guerra. E sembra che uno dei temi riguardasse l’efficacia operativa, e le implicazioni politiche e morali, della raccolta di informazioni tramite gli interrogatori “duri” dei nemici imprigionati. Cioè tramite la tortura.

La questione della tortura riemerse nel dibattito pubblico nei mesi successivi, quando il film, nella versione restaurata, tornò nelle sale per proiezioni un po’ meno rare. Il dilemma, naturalmente, vi è posto con lucidità dal comandante dei parà francesi incaricati della repressione. Il colonnello Mathieu, interpretato da Jean Martin, l’unico attore professionista del cast, è il modello anche troppo elegante e sofisticato del moderno guerriero anti-guerriglia. Tagliente nell’analisi come un intellettuale (come un intellettuale francese?), dice ai suoi uomini: dobbiamo individuare la minoranza di algerini che è contro di noi, isolarla e distruggerla. Il metodo: interrogatori. Dice ai giornalisti che lo incalzano con domande ostili sul metodo: «Per essere precisi pongo io una domanda: la Francia deve rimanere in Algeria? Se rispondete ancora sì, dovete accettare tutte le necessarie conseguenze». Segue un montaggio di scene di tortura. Era questa la degradante prospettiva dell’America dopo l’Iraq, dopo l’11 Settembre, dopo Guantanamo?

Rivisto oggi, con il cinismo dell’età e della storia, c’è un paradosso nel successo politico americano di La battaglia di Algeri. Perché il film è in effetti un tragico manuale di sconfitte – per tutti. Ai simpatizzanti degli insurgents ricorda che la battaglia urbana fu comunque vinta dai francesi. Espone le ragioni scandalose della violenza asimmetrica degli oppressi, facile da condannare ma difficile da sostituire con altro. Dice il dirigente del Fnl, Ben M’Hidi: noi non abbiamo aerei con cui bombardare e distruggere, per questo usiamo bombe nascoste nelle borse della spesa, per questo siamo «terroristi». Dateci i vostri aerei, vi daremo le nostre borse. Ma è sempre Ben M’Hidi ad ammonire: con le bombe e gli attentati non si vincono né guerre né rivoluzioni. Agli esperti di counter-insurgency, d’altra parte, il film ricorda che pochi anni dopo la vittoria finale andò al Fnl. Qualunque fosse il prezzo pagato, il movimento era comunque inarrestabile.

A tutti, infine, La battaglia di Algeri ricorda i mutevoli destini delle rivoluzioni. Il colonnello Mathieu e i suoi ufficiali, così come le loro controparti nella reltà storica, erano eroi della Resistenza in Francia. In patria avevano combattuto per la loro liberazione. Nell’impero, in Indocina prima e ora in Algeria, erano diventati i repressori della libertà altrui. Il regista, egli stesso un ex-partigiano, lo mette bene in evidenza (e la cosa non è estranea all’esperienza degli Stati Uniti, un paese nato da una rivoluzione anti-coloniale e diventato una potenza imperiale). La stessa sorte sarebbe toccata ai liberatori d’Algeria. E’ di nuovo M’Hidi a dire nella fiction cinematografica: è difficile iniziare una rivoluzione, ma le vere difficoltà vengono dopo averla vinta. Nella realtà, dopo l’indipendenza il Fnl instaurò un regime autoritario sul suo popolo e fu dilaniato da lotte intestine. E quando nel luglio 1965 Pontecorvo iniziò a girare il suo film nelle strade di Algeri, nel paese c’era stato da pochi giorni un colpo di stato – rivoluzionari contro rivoluzionari.

Categorie:cinema, Guerra, violenza

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