Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

JFK Superstar a Los Angeles

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Pubblicato su L’Unità, Mercoledì 20 Novembre 2013.

In quel novembre del 1963, il lutto era tanto più straziante quanto più abbagliante era stato il glamour infranto del giovane presidente. Perdita dell’innocenza? Non scherziamo. Lo ha appena ricordato Ian Buruma in un bell’articolo (qui il testo): la storia degli Stati Uniti, come quella di ogni altro paese, “è impregnata di sangue”. E c’è stato sangue anche alla Casa bianca. Nella lunga storia nazionale, Kennedy era il quarto presidente a essere assassinato in carica. E a subire attentati sono stati in tanti, e a essere feriti seriamente pure – da Teddy Roosevelt a Reagan. Ma la memoria è corta, e JFK sembrava speciale, lo era in effetti – ed era l’attualità.

A consacrare la nascita del suo glamour speciale e molto contemporaneo era stato, appena tre anni prima, il romanziere Norman Mailer fattosi per l’occasione giornalista politico. Nel luglio del 1960 Mailer era a Los Angeles, alla Convenzione Democratica che scelse John Kennedy come candidato alla presidenza. Per conto del mensile Esquire scrisse un lungo e brillante reportage intitolato “Superman Comes to the Supermarket” (qui il testo). Superman è JFK. Il supermarket è il congresso del partito. Il contrasto fra i due fenomeni politici e, viene da dire, umani, non poteva essere maggiore. Lascio la parola allo scrittore, al suo immaginifico spin retorico, a un montaggio di sue citazioni.

Questo è il congresso di partito – così denso di sapori ottocenteschi.

“Una convention politica non è dopo tutto la riunione di un consiglio d’amministrazione; è una fiesta, un carnevale, un ritrovo medievale di gente che urla, scalpita, grugnisce, di bande che suonano, di avidità, brama materiale, idealismo compromesso, carrierismo, faide, vendette, accordi, di attaccabrighe, risse (come usava una volta), abbracci, ubriachi (di nuovo come usava una volta) e di fiumi collettivi di sudore animale. Tutto ciò ci ricorda che non importa quanto il paese pretenda di essere cresciuto e di essersi ripulito nelle maniere, di essere diventato incorporeo e astratto nel linguaggio legislativo, sterilizzato nella separazione dell’alta politica dalla vita privata – le sue radici sono ancora sporche di terra, e che la politica in America è tuttora diversa dalla politica altrove perché è nata dai bisogni immediati, dalle ambizioni e dalle cupidigie del popolo, che la nostra politica ancora puzza di camera da letto e di cucina, piuttosto che discendere a noi dalla gelida etichetta della negoziazione aristocratica”.

E questa è l’apparizione di Kennedy – da un altro mondo, così nuovo.

“Lo vedevi subito. Aveva la profonda abbronzatura bruno-dorata del maestro di sci, e quando sorrideva alla folla i denti erano bianchissimi e chiaramente visibili da cinquanta metri. … Avevi un momento di intenso déjà vu, perché la scena era già stata intravista prima, in una dozzina di commedie musicali; era la scena in cui l’eroe, l’idolo da matinee, la star del cinema arriva a palazzo a pretendere la mano della principessa… I Democratici stavano per nominare un uomo che, per quanto seria fosse la sua passione politica, sarebbe stato indubbiamente visto, volente o nolente, come un attore di successo… La politica americana sarebbe ora diventata il film favorito dell’America, la soap opera favorita dell’America, il best-seller dell’America.”

E soprattutto – “un uomo che corteggia il suicidio politico decidendo di cercare la candidatura quattro, otto o dodici anni prima che gli anziani del partito lo ritengano pronto, un uomo che annuncia una settimana prima della convenzione che i giovani sono più adatti dei vecchi a indirizzare la storia. Sì, catttura l’attenzione. Questo non è un candidato di routine … bello come un principe nell’aristocrazia non detta del sogno americano”.

Naturalmente dietro l’audacia giovanile e l’immagine da celebrity c’era una macchina politica, una macchina spietata – la conquista kennediana del partito Democratico, dice Mailer, merita l’aggettivo conquistadorial. Il fratello Robert ne era uno degli operatori. Eccolo in un ritratto perfido e ammirato, anch’egli con un suo speciale glamour.

“Bobby assomigliava a uno di quegli irlandesi di buona famiglia che ti trovi di fronte in una partita di football a Harvard. “Salve”, gli dici mentre ti metti in posizione per la mischia dopo il calcio d’inizio, e lui fa un cenno col capo e guarda altrove, il vago riconoscimento che ti è dovuto per aver vissuto nello stesso corridoio per un’intero anno da matricole, e poi bang, appena la palla è passata indietro, ti prendi una solenne ginocchiata nel basso ventre. Era il tipo d’uomo con cui è meglio non incrociare i guantoni per fare un po’ di boxe amichevole, perché dopo due minuti è guerra, e gli ego-bastards durano a lungo in guerra”.

La mano di Robert Kennedy sul braccio del boss Democratico di New York, Carmine DeSapio. Alla Convenzione di Los Angeles del 1960 il giovane Bobby si lavora il vecchio apparato di partito – e la mano, gli occhi, la bocca dicono che non sta scherzando. (Il sindaco Democratico di New York, Robert Wagner, è preso in mezzo).

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Categorie:campagna elettorale, Electoral process, presidenza

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