Che cosa succede se la Corte suprema, per la composizione del suo personale, e quindi per la filosofia giudiziaria della maggioranza dei suoi membri, sicuri nella loro nomina a vita, entra d’improvviso in contrasto con il regime politico-sociale del paese, un regime nuovo, nascente, con aspirazioni a durare almeno quanto la vita dei giudici? Per dire il caso di oggi: che cosa succederebbe se questa Corte plasmata da molte nomine conservatrici di presidenti repubblicani, ormai sei contro tre, di cui alcune recentissime di giudici piuttosto giovani, e quindi eterni per i tempi della politica, entrasse in contrasto con un possibile nuovo regime (un regime, quindi qualcosa che aspiri a durare e abbia le caratteristiche per farlo) di tipo democratico-progressista?
Il contrasto potrebbe essere urticante e protrarsi a lungo, come è accaduto in alcune epoche storiche. Oppure, come è accaduto in altre epoche, potrebbe diventare scontro pirotecnico, e tradursi in tentativi di manipolazione della Corte stessa da parte del nuovo regime. Magari con una complessa e pensosa riforma (qui) dei vertici del sistema giudiziario federale, come è suggerito da alcuni? Oppure, come suggerito da altri, con un po’ di semplice e pratico court packing?
Il termine, court packing, non è né gentile né neutro. E’ gergo da politicanti che agiscono nei retrobottega (da boss nelle “stanze piene di fumo” si diceva una volta), roba da cronisti retroscenisti, che descrive una riforma perfettamente legittima della Corte suprema, ovvero la modifica del numero dei suoi membri che si può fare con legge ordinaria, non essendo quel numero scritto in Costituzione. Riforma legittima ma ritenuta poco onorevole perché mira ad adeguare l’istituzione alle idee e agli interessi dei riformatori stessi, quindi della maggioranza del momento, del presidente in carica. E’ vista come uno sbreco sleale, una vendetta (tutta politics, niente di sistemico) del nuovo sul vecchio. Una sorta di revenge porn.
In due casi del passato, piuttosto drammatici, è andata così.
Quando si parla di court packing, la prima cosa che viene in mente è Franklin D. Roosevelt e, verrebbe da dire, il suo fallimento. Ma un momento. La Corte, allora composta da giudici fedeli alla tradizionale dottrina conservatrice secondo la quale il governo federale non ha l’autorità a regolare le attività economiche e sociali, aveva giudicato incostituzionali le novità del New Deal. Nel 1937, baldanzoso per la rielezione a valanga dell’anno prima, FDR pensò a un progetto di legge che gli avrebbe dato la possibilità di nominare un giudice aggiuntivo per ogni giudice in carica che fosse lì da almeno 10 anni e avesse raggiunto l’età di 70 anni.Avrebbe potuto fare fino a un massimo di 6 nomine, tutte nuove, tutte sue, e creare una maggioranza ben disposta. Le reazioni furono scandalizzate, ci furono resistenze anche nel suo partito, e non se ne fece niente. Tuttavia FDR, sconfitto sul fronte legislativo, riuscì lo stesso nel suo intento politico. La Corte, intimidita, cominciò a votare in maniera diversa. E poi furono la natura e l’auto-pensionamento a favorire il ricambio, a risolvere la faccenda.
Nel giro di qualche anno FDR poté nominare cinque membri liberal e fondare la “Corte di Roosevelt” che divenne uno dei presidi del regime newdealistico.
Ciò che non riuscì, almeno formalmente, al democratico FDR fu un fatto quasi di routine per il partito repubblicano di Abraham Lincoln nell’epoca della Guerra civile. Nel giro di qualche anno, fra il 1863 e il 1869, i repubblicani in Congresso aumentarono il numero dei giudici da 9 a 10, dando al presidente Lincoln la possibilità di aggiungere un suo uomo ai quattro che già ebbe modo di nominare per ragioni di ordinario turnover. Poi, a guerra finita, ridussero il numero a 7, per ragioni tecnico-burocratiche ma con l’effetto collaterale di negare all’inviso successore di Lincoln, Andrew Johnson, la possibilità di fare alcunché. Infine, una volta eletto un nuovo e più amato presidente, Ulysses Grant, riportarono il numero a 9, consentendogli di lasciare il suo segno. I nuovi giudici di Grant si distinsero in sentenze che favorirono le politiche della sua amministrazione, e gli procurarono veementi accuse di manipolazione faziosa dell’augusto consesso.
Il senso e il risultato di questa serie di operazioni erano abbastanza chiari. La Corte suprema, che fino ad allora era stata dominata dal ceto dirigente degli stati meridionali schiavisti, ne uscì completamente riorganizzata. Nel fuoco della guerra e del dopoguerra e della fine della schiavitù fu trasformata in una cosa nuova, filosoficamente omogenea al nuovo regime politico-sociale dominato dai repubblicani settentrionali. Per entrare nei dettagli, non sorprenderà apprendere che tutti i nuovi giudici nominati in questo frangente provenissero da Stati del Nord, in molti casi succedendo a giudici del Sud. Una delle nomine più importanti fu quella a Chief Justice, quando Lincoln poté sostituire il deceduto Roger B. Taney (nel 1864), campione sudista della schiavitù, con un uomo preso direttamente dal suo gabinetto, il segretario al Tesoro e repubblicano dell’Ohio Salmon P. Chase.
La “Corte repubblicana” restò uno dei presidi del governo federale nei decenni a venire – be’, con i dovuti aggiustamenti, fino agli anni del New Deal.
Insomma, negli anni della Guerra civile, proprio come negli anni del New Deal, vecchi regimi crollarono, quasi d’improvviso, frangendosi in una guerra sanguinosa nel primo caso, in una drammatica depressione nel secondo. Nuovi regimi ne emersero, in tensione con le persistenze filosofiche di giudici nominati a vita, d’improvviso residui di un mondo scomparso. In un modo o nell’altro, con le buone o con le cattive, la Corte suprema fu adattata o si adattò a come andava il nuovo mondo.
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