A proposito dei miei post sul #ChineseDream vorrei mettere in chiaro alcuni punti. Con una premessa che non è neanche il punto Uno ma proprio il punto Zero: non ce l’ho ma proprio per niente con “i cinesi” (qualunque cosa ciò voglia dire, persone, popolo, storia, costumi, la cucina) né là né tanto meno qua. E per ciò che riguarda il governo, sono tutto a favore del ringraziarlo quando manda “doni”, regali utili come si diceva un tempo, con o senza le virgolette (e già che ci siamo grazie pure al governo cubano, e persino a quello russo).
Il punto Uno invece è questo. E’ una vecchia storia. Non sono un esperto della politica estera e della espansione politico-economica del governo cinese, non ne so molto al di là delle letture di routine sui giornali. So qualcosa di più della storia della politica estera e dell’espansione e dell’ascesa a grande potenza degli Stati Uniti. Non dico che le due avventure siano eguali, a distanza di un secolo l’una dall’altra, per l’amor di Dio, chi sono io per dirlo. Ma mi diverte sottolineare, quando mi capita di notarle (e mi è capitato spesso negli ultimi anni), quelle somiglianze fattuali e retoriche che in effetti esistono, magari solo ai miei occhi superficiali o prevenuti. Per dire, i cinesi costruiscono ferrovie in Africa per il bene dell’Africa, senza intenzioni di dominio politico: un po’ come, per gli stessi motivi, gli yankee costruivano ferrovie in Messico? La flotta cinese si aggira teneramente nel Mar Cinese Meridionale: un po’ come la flotta di Teddy Roosevelt nel Golfo dietro casa? Taiwan è roba nostra: un po’ come Cuba? L’annessione del Tibet a metà Novecento: un po’ come quella di Texas e California a metà Ottocento? La nuova via della Seta: un po’ come la via transPacifica al China Market?
E poi c’è il governo cinese che sta cercando di inventarsi la narrazione di un Chinese Dream da diffondere nel mondo, il famoso soft power, come nel corso del Novecento hanno fatto gli yankee con l’American Dream (sia pure, almeno per il momento, senza Hollywood e rock’n’roll, blue jeans e Coca Cola, pop art e hippies, Apple e rap).
Ma la cosa che davvero mi affascina, la ragione per cui queste somiglianze mi hanno sempre affascinato, è un’altra, e riguarda le reazioni a esse di certi nostri concittadini. E questo è il punto Due. Mettiamola così: capita di sentire in giro persone anche informate e scafate e smart, pronte a mostrare indignati feelings anti-imperialisti di fronte a qualunque cosa si sia storicamente mossa e ancora si muova sul fronte statunitense, che invece sono beatamente cieche di fronte agli stessi movimenti sul fronte cinese. Cieche o tutte contente, in effetti. Nel freddo e spietato mondo delle relazioni internazionali, quale persona di mondo accetterebbe mai l’idea che si portino doni – ferrovie o piani Marshall o caramelle & perline o medici & medicine – per generosità o per bontà d’animo? Chiunque si chiederebbe dove stiano, dietro quelle immaginette così corny da essere commoventi, le intenzioni di medio-lungo periodo, gli interessi materiali, insomma i trucchi. Chiunque, tranne certi spietati dietrologi o feroci materialisti storici, improvvisamente idealisti sentimentali con il governo cinese. Non vedono o, se vedono, apprezzano.
Hanno (ri)scoperto un impero del bene?
Ma che cosa apprezzano, esattamente? E siamo al punto Tre. La Cina è l’impero del bene perché l’America è considerata l’impero del male, e questo discorso ha un suo fondamento logico, sia pure non sulla base di grandi ideali ma della più dura realpolitick. Se si è contro la superpotenza americana che si pensa ancora imperialmente egemone, l’ascesa di una nuova superpotenza, chiunque essa sia, non può che rompere la cappa dell’egemonia, aprire spazi di manovra, di possibilità. Ma non c’è solo questo. Una nuova egemonia cinese sembra desiderabile in positivo per il tipo di organizzazione sociale e politica che propone. Un nuovo sogno socialista, dopo quello finito con il crollo dell’URSS? Ho il sospetto che con più probabilità si tratti del sogno di un sistema di governance bello robusto, politicamente autoritario, a partito unico (il mio, finalmente), socialmente disciplinante, piuttosto sbrigativo (in galera!). Un sistema illiberale, antagonista del liberalismo neo e anche vetero, e delle fatiche della democrazia liberale. E i nuovi capitalisti miliardari di Alibaba? Son comunque dei filantropi (a differenza di Bill & Melinda Gates).
La controprova? L’appeal cinese ricorda per molti versi l’appeal che aveva l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e che, per alcuni, si è trasferito immutato alla nuova Russia di Putin e degli oligarchi. La quale ha perso ogni connotazione ideologica socialista e sovietica ma ha mantenuto una sua vena autoritaria e paternalistica, la tentazione imperiale, il culto dell’ordine, la centralizzazione del potere, il potere a vita, con il nazionalismo come unica bandiera.
E’ di questa sostanza che è fatto il sogno?
- A proposito della costituzionalità del “remote voting” nel Congresso degli Stati Uniti.
- Il discorso del Piano Marshall (5 giugno 1947)
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Tag:Chinese Dream, Repubblica Popolare Cinese