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The Bosses of the Senate (1889)
Il deputato democratico John Dingell, scomparso l’altro giorno all’età di 92 anni, ha avuto poco prima di morire un brillante idea: e se abolissimo il Senato degli Stati Uniti? Un’idea basata sulla sua esperienza politica e legislativa più che semi-secolare, un vero record storico: 59 anni alla Camera dei Rappresentanti (1955-2015) a rappresentare un collegio del Michigan che include pezzi di Detroit, Dearborn, Ann Arbor. Quindi a rappresentare con il bello e il cattivo tempo i lavoratori dell’automobile, avrebbe detto lui – o gli interessi dei costruttori d’automobili, dicevano i suoi critici. Immagino che ai suoi occhi le due cose andassero d’accordo: “la mia gente vive e muore sulla base del successo dell’industria dell’auto”. Era accusato di essere “sposato alla General Motors”, e in effetti la moglie ne era una altissima dirigente, apparteneva alla famiglia dei fondatori. Era anche un newdealer, educato dal padre deputato rooseveltiano negli anni trenta, come lui interessato soprattutto all’estensione dello stato sociale, alla riforma sanitaria, alla creazione di un sistema sanitario nazionale.
Bene – ha scritto Dingell in un lungo articolo di un paio di mesi fa su The Atlantic: per il bene della democrazia americana, per superarne alcune profonde distorsioni, aboliamo il Senato!
La proposta ha una lunga storia. Ogni tanto rimerge nei saggi di qualche politologo o costituzionalista, e anche nel dibattito pubblico, qua e là. Nell’ultimo paio d’anni, senza troppo cercare, l’ho incontrata sulle colonne del Washington Post, su quelle di Gentlemen’s Quarterly, più prevedibilmente su quelle dei socialisti di Jacobin. E da parte di questi ultimi si capisce facilmente perché. Nel 1911 fu il solitario deputato socialista del Wisconsin, Victor Berger, a presentare alla Camera un emendamento costituzionale in tal senso: per l’estinzione del Senato, un corpo inutile, una minaccia alla libertà, la negazione della volontà popolare, una congrega di servi del big business più predatorio. Un “club di milionari”, si diceva nell’Ottocento. Inutile dirlo, la fine è nota: la cosa non fu neanche discussa. Il 1911 fu comunque l’anno in cui venne avviata la procedura per un altro emendamento invece di successo, il Diciassettesimo, che due anni dopo rese obbligatoria l’elezione popolare diretta dei senatori, se non altro.
Abolire il Senato potrebbe sembrare una riforma invocata dai populisti, magari, si potrebbe pensare seguendo i canoni ideologici del populismo internazionale, per semplificare le complicatezze della vecchia Costituzione settecentesca, per correggere i suoi pregiudizi anti-democratici, per ridurre la distanza che separa l’esercizio delle decisioni politiche dalla genuina volontà del popolo. Non negli Stati Uniti. Qui a immaginare la riforma sono piuttosto alcuni esponenti dei circoli democratici, progressisti, e di sinistra radicale. Con intenzioni virtuose che almeno in parte coincidono con quelle di tipo populista: in soldoni, più democrazia maggioritaria, più una testa-un voto, più power to the people. E soprattutto con viziose intenzioni di parte, visto che la struttura del Senato, almeno in questi anni, favorisce i repubblicani.
In effetti l’esistenza di Donald Trump e i risultati delle midterm elections 2018 (la Camera popolare ai democratici, il Senato federale ai repubblicani) hanno riacceso alcuni pruriti di cambiamento – che sembrano per il momento velleitari.
Il Senato è davvero il luogo della disparità di rappresentanza fra i cittadini americani. E lo è per l’ovvia ragione che non rappresenta “the people” ma gli stati. Lì tutti gli stati sono creati eguali, ciascuno con due senatori, qualunque sia il numero dei loro abitanti. E’ un marchingegno costituzionale che definisce la struttura federale del governo, nata dalla riluttante cessione di sovranità di stati sovrani. E che all’origine aveva altri vantaggi addizionali. Contribuiva a “frenare la furia della democrazia”, come disse un costituente. E garantiva agli stati schiavisti la loro influenza. Dopo più di due secoli il federalismo e il Senato sono ancora in discussione. C’è chi dice: “Noi non siamo l’America, siamo gli Stati Uniti d’America”. E chi invece dice: non siamo più una federazione di stati ma una grande nazione unitaria – è ragionevole avere un’assemblea nazionale in cui i 600.000 abitanti del Wyoming abbiano la stessa rappresentanza dei 40 milioni di californiani?
Questa disparità, esistente da sempre, si è accentuata con lo sviluppo economico e demografico che ha portato le attività produttive, la forza-lavoro più vivace e istruita, e la popolazione tutta, tanto più se di origine immigrata, nei grandi stati urbani. E ha assunto una dimensione partitica. In termini quantitativi è questa la “vera America” maggioritaria, metropolitana ed etnicamente diversa – che vota democratico ma è concentrata in meno stati e quindi, in proporzione, esprime meno senatori. Mentre l’America bianca degli stati rurali e delle piccole città, celebrata dalle fantasie conservatrici, è minoritaria – ma in Senato è sovra-rappresentata soprattutto da repubblicani. Tenendo conto dei vasti poteri che gli sono assegnati, in politica estera, nelle nomine dei giudici federali, il Senato federale è una delle camere alte più potenti nelle democrazie liberali. Ma è anche un caso estremo di governo della minoranza.
Metterne in discussione la struttura sembra davvero difficile. Per le ragioni partisan che abbiamo visto – perché, oggi come oggi, i repubblicani dovrebbero essere d’accordo? E per ragioni costituzionali che a queste s’intrecciano, visto che per cambiare la carta occorrono maggioranze qualificate in entrambe le camere e fra gli stati – perché gli stati più piccoli dovrebbero suicidarsi? Fra l’altro la carta stessa contiene una clausola che dice: “nessuno Stato, senza il suo consenso, sarà privato della sua parità di suffragio in Senato”. Cioè: una riforma anti-federalista del Senato avrebbe bisogno del consenso di tutti i senatori e di tutti gli stati, dell’unanimità. Tanto più la sua abolizione.
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Categorie:costituzione
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