Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Negroland, Negro (pronuncia /ˈniːɡrəʊ/)

Jeff_combined photosHo appena cominciato a leggere Negroland, il memoir di Margo Jefferson sulla sua vita nella borghesia afro-americana di antico benessere, di prestigiose professioni, di ottima istruzione, di raffinata educazione. Lo sto leggendo nella bella traduzione di Sara Antonelli appena uscita per l’editore 66thand2nd (un nome per me curioso, molti decenni fa quell’incrocio di Manhattan mi era diventato familiare). E la lettura, già mi sembra di poterlo dire, si annuncia brillante e coinvolgente. Magari ne parlerò quando l’avrò finita.

Per il momento mi soffermo su una parola, che sta nel titolo anche, ed è ripetuta molto nel testo, e che forse ha bisogno di qualche chiarimento italiano. Cito dalla pagina 13 del libro:

La chiamo Negroland perché trovo ancora che “Negro” sia una parola sbalorditiva, illustre e terrificante. Una parola che trovi sui manifesti con gli schiavi fuggiaschi e sugli editti con i diritti civili; nelle convenzioni sociali e negli sbruffoni all’angolo di strada. Una parola di una lingua tonale il cui significato varia in base alla collocazione e al contesto, e ai modi in cui la Storia curva, sbanda, avanza e ristagna. Intanto le lettere maiuscole sembrano enfatizzare la sua dignità; intanto nascono altre nomenclature che ne sfidano il primato.

La chiamo Negroland perché per molto tempo la parola “Negro” ha dominato la nostra storia, perché per molto tempo ho vissuto con i suoi significati e le sue insinuazioni, e perché questi ultimi sono stati decisivi per le prime scoperte che ho fatto su ciò che era la razza o, come si dice adesso, su come è stata costruita la razza.

Dunque “Negro”, con la maiuscola. La parola, pronunciata dagli americani /ˈniːɡrəʊ/, cioè più o meno “Nigrou”, ha origine spagnola e portoghese. E’ il nome con cui i primi viaggiatori atlantici iberici chiamavano le popolazioni di colore a sud del Sahara. Negli Stati Uniti si è diffusa fin dalla loro nascita, è rimasta molto usata fino a qualche decennio fa, e un poco usata lo è ancora oggi. Non aveva e non ha un significato negativo o insultante. La parola insultante, che non è bello pronunciare e neanche scrivere, e che non scriverò neanche qui, è “n—-r”, simile ma molto distante quanto a intenzioni d’uso.

“Negro” era usato da tutti, da schiavisti e antischiavisti, dai razzisti e dai movimenti per i diritti civili, anche i più radicali. La prima organizzazione abolizionista, nata a Filadelfia nel 1775, si chiamava “The Society for the Relief of Free Negroes, Unlawfully Held in Bondage”. E così avanti fino al grande abolizionista Frederick Douglass, agli attivisti bianchi e neri di inizio Novecento, e poi, negli anni Venti, agli intellettuali del Rinascimento di Harlem (che vantavano di essere “The New Negro”), ai comunisti e ai nazionalisti neri più radicali come Marcus Garvey (che fondò una Universal Negro Improvement Association).

Nel suo discorso più celebre e celebrato, “I Have a Dream”, ancora nel 1963 Martin Luther King ripeteva musicalmente:

But one hundred years later, the Negro still is not free. One hundred years later, the life of the Negro is still sadly crippled by the manacles of segregation and the chains of discrimination. One hundred years later, the Negro lives on a lonely island of poverty in the midst of a vast ocean of material prosperity. One hundred years later, the Negro is still languishing in the corners of American society and finds himself an exile in his own land. So we have come here today to dramatize a shameful condition.

E’ negli anni Sessanta che “Negro” si eclissa e altre parole prendono il sopravvento. “Black” – usata da tempo, ora rivendicata con rinnovato orgoglio dai militanti del Black Power e dai cantori del “Black is Beautiful”. Oppure “Afro-American” o “African American” – apprezzata da chi vuole sottolineare la componente africanista di origini e cultura. Il cambiamento è veloce nel linguaggio corrente, più lento in quello istituzionale. Il venerando Journal of Negro History, fondato nel 1916 dallo storico nero Carter G. Woodson, ha atteso il 2001 per diventare The Journal of African American History.

Verso la fine del Novecento le etichette di “Black” e “African American” sono entrate anche nelle classificazioni ufficiali del censimento federale. Dove ancora si accompagnano a quella di “Negro”, che in verità vi è entrata molto tardi, nel 1900. E vi permane perché gli afro-americani di una certa età continuano a considerarla appropriata, a riconoscersi in essa. Suona ormai un po’ antiquata, un po’ ottocentesca, un po’ demodé, può suonare deliziosamente fuori moda. Forse è per questo che è così cara agli aristocratici abitanti di Negroland di cui promette di parlarmi Margo Jefferson. Chissà, vedremo.

Categorie:Diritti civili

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