Bernie Sanders ha dato la sua benedizione al democratico Doug Jones che ha vinto le elezioni senatoriali suppletive dell’altro giorno in Alabama. Congratulazioni a lui, ha scritto, e agli elettori per aver fatto ciò che pochi pensavano avrebbero fatto; questa è una vittoria “for justice and decency”. Ed è indubbio che si tratti di un evento sorprendente e di un segnale politico importante per lo stato, per il Sud e, chissà, magari per l’intero paese. Fra l’altro, il senatore Sanders ne vedrà le prime conseguenze proprio in Senato, dove la ristretta maggioranza repubblicana sarà ora ancora più ristretta, passando dai 52 seggi a 48 attuali a 51/49, quindi ancora più precaria, esposta alle pressioni e ai ricatti di ogni singolo senatore. Almeno per un anno, perché poi le elezioni di midterm del novembre 2018 riapriranno i giochi (ma il mandato di Jones scade nel 2020).
Congratulazioni va bene, ci mancherebbe. Ma è chiaro che il partito che ha vinto non è il suo. Non lo è formalmente, perché dopo la parentesi dell’anno scorso, il tempo della campagna elettorale, ora Bernie è di nuovo un indipendente, nel suo limbo personale. Ma soprattutto non è il suo per come lui e i suoi sostenitori dentro il partito lo vorrebbero. I Berniecrats sono una corrente non marginale fra i democratici. Si battono negli organi di partito, con qualche successo, per riformare il sistema delle candidature, per rendere le scelte dell’apparato meno rilevanti e le primarie più aperte, di più facile accesso, in vista del 2020. Ma continuano a essere minoranza. E accusano la leadership e la maggioranza di essere vicini agli interessi del big business e di Wall Street, di ignorare i temi delle diseguaglianze economiche e della giustizia sociale, di ignorare la classe operaia – il loro cavallo di battaglia.
Il partito che ha vinto in Alabama è appunto quello dell’attuale maggioranza, è il partito di Barack Obama e di Hillary Clinton. Lo è per il tipo di coalizione sociale che lo ha sorretto, per il tipo di candidato e di campagna elettorale che ha espresso, per le strategie politico-organizzative che ha adottato. Ed è probabile che questa vittoria ne rafforzi le chance di continuare così in futuro.
Il democratico Jones ha vinto alla maniera di Obama e di Hillary. L’ha fatto sommando il massiccio voto delle minoranze razziali, in Alabama massicciamente afro-americane, con un buon risultato fra i millennials e nel ceto medio-alto bianco, urbano, istruito, storicamente liberal. Come in altre vittorie democratiche del genere, a essere cruciale è stato l’incremento di affluenza alle urne di questi gruppi sociali. Qui eccitato e favorito dalle particolari doti del candidato repubblicano e designato vincitore, Roy Moore, un razzista bigotto con un passato di scandali sessuali che hanno scandalizzato anche un po’ di repubblicani. In una gara decisa da un pugno di voti (20.700), che quasi 22.800 votanti presumibilmente repubblicani abbiano disperso i loro suffragi in write-ins, be’, ha la sua importanza.
La linea del colore è stata la più netta, non quella economica. Secondo gli exit polls, Jones si è preso tutto il voto dei neri (96%), in particolare quello delle donne nere (98%), salutate come le vere trionfatrici della giornata. I neri sono quasi il 30% dell’elettorato generale e, grazie a un notevole aumento di partecipazione, hanno costituito più della metà (56%) dei suoi consensi. Gli è invece sfuggita la gran massa degli elettori bianchi, che hanno sostenuto il repubblicano Moore con margini ampi in generale (68%), con margini eccezionali fra i maschi bianchi meno istruiti (79%), in pratica la working class. Insomma il conflitto fra il partito della gente di colore e del mix etnico versus il partito interclassista dei bianchi, cioè la frattura che ha eletto due volte Obama e che nel 2016 ha procurato una maggioranza popolare a Hillary – è lì, ben visibile.
Il candidato democratico protagonista dello scontro, visto da vicino, è adatto a interpretare il ruolo in commedia, è omogeneo in tutto alla linea dominante nel partito. Ed è evidente il contrasto con Moore, il quale suggerisce una opzione in solida crescita fra i repubblicani: l’uomo può aver perso la battaglia ma le sue idee potrebbero vincere la guerra, dentro il partito.
Di Doug Jones si dice spesso che sia un centrista moderato. Il che vuol dire che è a favore di Obamacare e dei diritti degli immigrati, contrario al muro trumpiano e alla riforma fiscale repubblicana. E’ un campione dei gay rights e degli abortion rights, e un difensore dei diritti degli afro-americani. E’ famoso per aver ottenuto, da procuratore federale nominato da Bill Clinton, la condanna di due membri del Ku Klux Klan che nel 1963 parteciparono all’attentato a una chiesa di Birmingham che uccise quattro ragazzine nere – quattro martiri del civil rights movement locale e nazionale. Il primo senatore democratico dell’Alabama da un quarto di secolo a questa parte è dunque l’esatto opposto dei democratici che l’avevano preceduto in altri tempi, tutti vecchi sudisti reazionari razzisti.
E’ il repubblicano Roy Moore a ricordare oggi, in modi aggiornati e un po’ cartoonish, quei vecchi signori: nostalgico della Confederazione, religioso fondamentalista, antiimmigrati musulmani e anti LGBT, beniamino della destra radicale. Gli incidenti della sua carriera parlano per lui, prima ancora delle accuse per molestie sessuali delle ultime settimane. E’ stato infatti per ben due volte chief justice della corte suprema statale, che in Alabama è un organo elettivo (e su base partisan: i suoi membri son tutti repubblicani). E per ben due volte è stato cacciato dalla magistratura federale. La prima volta per non aver rimosso un monumento ai dieci comandamenti che aveva fatto installare di fronte al tribunale. La seconda (nel 2016), per aver ordinato ai subordinati di rifiutare le licenze matrimoniali alle coppie dello stesso sesso.
Anche le esperienze di servizio pubblico dei due uomini non potrebbero essere più contrastanti. Jones – un funzionario nominato dall’alto a rappresentare il governo federale. Moore –un giudice statale scelto dal basso, in diretto contatto con le turbolenze della politica elettorale locale, in conflitto continuo con la magistratura federale.
Infine, a dare una mano nella campagna elettorale, a livello politico e organizzativo, ci ha pensato la leadership del partito nazionale, obamiana e clintoniana. Coadiuvata da altri gruppi di varia tendenza liberal, tipo MoveOn.org, o di varia disponibilità finanziaria (compreso, secondo la stampa di destra, l’onnipresente spauracchio, l’ubiquo miliardario George Soros). Un ruolo senza dubbio decisivo è stato quello del chairman del Democratic National Committee, Tom Perez, un ex ministro del Lavoro del presidente Obama eletto a quella carica dai clintoniani, dopo aver battuto il candidato di Sanders, il deputato del Minnesota Keith Ellison. (Poi Ellison è stato cooptato come vice di Perez, in una mossa per promuovere l’unità del partito, una unità che fa fatica a procedere.)
La strategia di intervento è stata duplice. Da una parte non si voleva che Jones potesse essere presentato come un burattino nelle mani di gente venuta da fuori, cosa che i repubblicani già facevano volentieri. Quindi niente spot televisivi o radiofonici pagati dal partito nazionale (molti ce ne sono stati, di spot, ma sponsorizzati localmente). Il mantra è stato “It’s an Alabama race”. Fino al punto, in certi momenti, di dare l’impressione che quella di Jones fosse una corsa solitaria. Dall’altra, il partito ha investito consistenti risorse finanziarie e umane nel lavoro organizzativo di base, nei contatti personali con gli elettori, nella mobilitazione porta a porta, per portare fisicamente gli elettori ai seggi. Assistito in questo da una rete estesa di attivisti e attiviste grassroots, spesso indipendenti, presenti soprattutto nelle comunità afro-americane.
Nelle comunità afro-americane – quelle che ancora una volta sono state il principale pilastro di questo partito democratico, quelle in cui è stata costruita con pazienza, e agendo sotto i radar mediatici, questa straordinaria vittoria.
- Guerra, l’ombra permanente nella storia americana (Marilyn Young 2012)
- Negroland, Negro (pronuncia /ˈniːɡrəʊ/)
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