Insomma, noi italiani, siamo “diventati” razzisti? Credo che la domanda sia mal posta. (Quasi) nessuno di noi è razzista e tutti lo siamo, siamo almeno portatori del virus del razzismo. Dipende dai contesti. Me la racconto così: siamo tutti razzisti quando entriamo in contatto territoriale con altri che non ci assomigliano: in maniera rapida (vent’anni fa era diverso), massiccia (grandi numeri, sempre più grandi), competitiva che ci appare aggressiva (che cosa vogliono da me?), gerarchica (chi comanda?). Succede in tutte le epoche e in tutti i paesi, anche in quelli che alle grandi ondate migratorie sono abituati. Per questo è inutile e forse controproducente dare del “razzista” a questo e a quello (anche tu lo sei, tranquillo). Per questo è inutile “vergognarsi” di essere questo o quello (non fare il superiore). Per questo ci vuole la politica. Per questo simili fenomeni, spesso epocali e travolgenti, devono comunque essere governati.
Il caso del film Indovina chi viene a cena (1967), di cui c’è una scena qui sopra, è interessante per molti versi. Se la riunione conviviale fra quei quattro lì avvenisse nell’eden, in un tempo senza storia, non ci sarebbe alcun dramma né alcuno scandalo. (Già l’incontro erotico di lei bianca e lui nero è stato possibile in quell’eden multirazziale della fantasia che sono le Hawaii, le Hawaii dell’infanzia di Barack Obama; e l’incontro fra la coppia e i genitori di lei è possibile nell’eden upper-class intellettuale liberal-cuore-infranto di San Francisco.) E’ che avviene nel contesto che sappiamo. E’ la storia fuori di lì che ne fa uno scandalo e un dramma. Per dire, se nella tua comunità bianca e statica arriva un medico nero, magari elegante e bello e garbato come Sidney, probabilmente siete tutti contenti di aver acquisito un “bel dottore”. Se a seguito di Sidney arrivano decine, centinaia di – diciamo pure professionisti neri, lasciamo stare i proletari, le cose cambiano, no? Siete tutti preoccupati dell’arrivo di tanti “neri”, medici o no non importa più, e anche i migliori fra voi cominciano ad avere cattivi pensieri. Qualche protagonista di questo cambiamento, banale e inevitabile, lo descrive con la frase “Non sono razzista ma mi ci fanno diventare”, grossolana ma non priva di senso.
C’è una pagina dell’Autobiografia di Malcom X che è piuttosto sorprendente, per uno come lui, ma che serve a illustrarne l’evoluzione di pensiero. Malcolm racconta che l’ambasciatore americano in un paese africano, incontrato in Africa, gli dice: quando sono in Africa non penso mai in termini di razza ma solo di esseri umani, non noto il colore della pelle; è quando torno negli Stati Uniti che divento consapevole delle differenze di colore. Gli dice Malcolm (e qui la traduzione è mia, non avendo sottomano l’edizione italiana): “Quello che mi stai dicendo è che non è l’americano bianco che è razzista, ma è l’atmosfera politica, economica e sociale americana che nutre automaticamente una psicologia razzista nell’uomo bianco”. E la lezione che ne trae per sé, e anche per te, è questa: “l’uomo bianco non è inerentemente malvagio, ma la società razzista americana lo spinge ad agire in maniera malvagia”. Il contesto è tutto.
Ma noi italiani, che siamo stati emigranti (e ancora lo siamo), che siamo stati stranieri in terra straniera, che abbiamo subito pregiudizi etnici e razziali e discriminazioni – non dovremmo saperla più lunga, non dovremmo capire, simpatizzare? Non dovremmo aver imparato la lezione? Il fatto è che non esistono lezioni, che siano univoche e obiettive, che si imparano dalla storia. Esistono solo le lezioni che ci servono a navigare le nostre pene di oggi. Un paio di lezioni che mi sono sentito raccontare con particolare vigore da italiani e anche da italo-ormai-americani negli Stati Uniti (quindi da emigranti in prima persona) sono queste. La prima è “Noi s’era diversi, non s’era illegali, si pagava il biglietto della nave”. E l’altra, un po’ più tossica, “Noi s’era diversi, non ci s’aveva pretese, s’aveva voglia di lavorare”. Il resto, i linciaggi subiti a New Orleans, il razzismo anti-nero delle Little Italy, la mafia e Al Capone, è dimenticato. Perché le cose vanno così, per questa e tante altre faccende. E’ il contesto del presente che conta, non la giusta memoria storica che secondo gli storici dovremmo avere, e invece ne abbiamo altre.
Categorie:Immigrazione
Ho letto con molto interesse. Ma appunto, il contesto cui faceva riferimento Malcolm X nel brano citato era quello di secoli di schiavismo prima e segregazione poi, che legittimava nella popolazione certe idee assurde. Quello cui fanno riferimento gli odierni italiani anti-immigrati di oggi è il contesto dell’egemonia culturale xenofoba, creata da un fenomeno migratorio mai veramente gestito e abilmente cavalcato da Salvini e altri, inclusi alcuni media, che hanno nutrito questo clima di paura e legittimato sentimenti xenofobi o apertamente razzisti che non solo sono profondamente ripugnanti ma anche socialmente disfunzionali, controproducenti. Per cui è vero che il virus del razzismo latente c’è in tutti gli uomini e la sua forza dipende anche dal contesto in cui viviamo (oltre che dall’autocontrollo e coscienza con cui individualmente vi rispondiamo), ma ciò non toglie che quella parte della classe dirigente resta politicamente e moralmente responsabile dello sdoganamento di quel virus, avendo presentato come fosse accettabile e perfino salutare date le circostanze.
Cordialità
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Caro Leonardo, sono ben d’accordo con lei. Qui voglio solo ricordare il contesto di questioni concrete (un fenomeno migratorio mai realmente gestito) su cui si innestano e prosperano gli imprenditori del razzismo, della xenofobia, della paura. Per batterli, tener presente quali siano le questioni concrete è fondamentale, credo.
Grazie per l’attenzione.
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