Pubblicato su ytali.com del 5 settembre 2017
Se non avesse il suo lato oscuro, la società americana non sarebbe una società di esseri umani. E infatti, come tutte le congregazioni umane del mondo, ce l’ha e con una storia ben tracciabile. Tracciarne la storia in maniera rapida ed efficace è il lavoro di Teodori in “Ossessioni americane. Storia del lato oscuro degli Stati Uniti” (Marsilio, agosto 2017, 160 pp.) nel momento in cui il lato oscuro sembra sia riuscito a piazzare al vertice del potere esecutivo un uomo come Donald Trump.
Per essere più precisi, questo è un viaggio nelle ragioni storico- ideologiche della popolarità di Trump in alcuni settori dell’opinione pubblica americana e, alla fine, della sua striminzita ma eclatante vittoria nel collegio elettorale anche se non nell’elettorato generale. E siccome la sua amministrazione è appena agli inizi, e le sue pulsioni politiche sono piuttosto vaghe e instabili (Trump appare a Teodori come un “vaso vuoto”), per parlare di ideologie tanto vale partire dal vaso pieno, dal vero stratega della vittoria stessa, e cioè dal super-consigliere Steve Bannon, ora in disgrazia ma una volta potente.
E Teodori parte da Bannon. Il quale, mentre il libro era in stampa, ha dovuto lasciare anche le back rooms della Casa bianca in cui si era ritirato, è stato licenziato e ha dichiarato finita la fase per lui interessante della presidenza Trump. Tuttavia la sua influenza è stata tale che l’analisi non risente del suo licenziamento, non ha bisogno della sua fattiva presenza nell’ufficio ovale per reggere, regge bene lo stesso. Perché le sue idee sono state operative nell’immediato passato, nel momento decisivo – per il futuro si vedrà.
Bannon, si sa, è fuori dalla tradizionale ala conservatrice del Partito repubblicano, che comunque appartiene alla famiglia liberale internazionalista. È invece un teorico della destra alternativa e radicale, anti-liberale con punte di xenofobia e white supremacy. È nel suo bagaglio ideologico che si trova il linguaggio degli attacchi agli immigrati ispanici e musulmani, agli afro-americani e agli omosessuali, il lessico misogino. Qui si trovano il nazionalismo economico e politico, il protezionismo e il ritiro dagli impegni internazionali. Qui si trovano l’anti-intellettualismo, l’insofferenza per la stampa, per le élite colte e per gli esperti, la retorica anti-establishment, le teorie del complotto.
Sono idee, o ossessioni come le chiama Teodori, che hanno una presenza lunga nel paese, e radici profonde. Il grosso del libro le racconta in una serie di capitoli tematici che rimbalzano di continuo dal passato più remoto al presente di Trump, e viceversa. C’è quindi la storia dei sentimenti e dei movimenti “nativisti” anti-immigrati e razzisti (“L’America agli americani”). Poi la storia dei sentimenti e movimenti “populisti” (espressione più di uno stato d’animo che di una dottrina compiuta, si dice). E ancora la storia dei nazionalisti di tipo isolazionista, con il loro falso richiamo al farewell address di George Washington (falso perché l’address annunciava un scelta politica realistica e contingente, non una filosofia per l’eternità).
E infine c’è la storia degli autoritarismi, o meglio delle “schegge autoritarie” che hanno cercato di distorcere i principi democratici e liberali della repubblica. Che si sono incarnate in capi o capetti demagogici o fascistoidi, alcuni di successo a livello statale (soprattutto nel Sud razzista) o per qualche tempo in qualche istituzione (J. Edgar Hoover a capo della FBI, Joe McCarthy in un sottocomitato del Senato), ma che mai sono arrivati alla Casa bianca. Mai fino a oggi, quando vi è arrivato un uomo che ne condivide alcuni caratteri espliciti o impliciti, tramite complici silenzi. E ciò, dice Teodori, crea apprensione in molti americani e nel resto del mondo.
Non c’è nulla da ridire, da un punto di vista storiografico, su un excursus che copre due secoli e attraversa questioni complesse? Certo che c’è. A me, per dirne una, non convince l’idea di Andrew Jackson (un eroe di Trump) come “padre” o “antenato” dei populisti. Lo ritengo piuttosto uno dei padri della moderna party democracy, fondata sul suffragio universale maschile e sui partiti organizzati di massa. Né si può far rientrare sotto l’etichetta di “populismo” ogni periodico riemergere di istanze collettive di cittadini che prendono sul serio le promesse dell’auto-governo e quindi l’eterna questione di ridefinire, per conto loro, chi sia il popolo e quali siano i suoi legittimi interessi. Ma questa è una discussione per un altro momento.
In epilogo, Teodori ci rassicura che Trump, anche se lo volesse, non potrebbe cambiare il regime liberal-democratico americano. Ci sono troppi antidoti e vincoli costituzionali e politici e civili perché ciò accada. Antidoti e vincoli che già hanno funzionato in passato e che sembrano funzionare anche oggi. Trump sta cambiando in peggio la politica del paese sia all’interno che sul piano internazionale – ma è “improbabile” che la repubblica cambi pelle strutturalmente. Fra l’altro, aggiunge Teodori con un tocco drammatico e forse di wishful thinking, “nel momento in cui scriviamo è incerta la sorte del quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti”.
La rassicurazione mi convince, è anche la mia. Anzi, dal titolo dell’epilogo, “Ma l’America resta una democrazia liberale”, toglierei anche quel “ma” che suona difensivo. Ovviamente gli Stati Uniti sono una democrazia liberale. Proprio per questo, fra l’altro, gli americani possono e noi stessi da fuori possiamo discuterne liberamente, con una straordinaria abbondanza di dati e analisi e ricerche, gli inevitabili lati oscuri. Una società politica che non abbia lati oscuri non esiste. Se e quando pretende di non averne, significa solo una cosa: che il lato oscuro è davvero al governo, o meglio al potere.
- Siamo “diventati” razzisti? Il contesto è tutto
- Il “disgustoso monumento” dei quattro schiavi di Livorno
Categorie:Americanismo, Cultura politica
Tag:Donald Trump, Massimo Teodori, Steve Bannon, storia americana