Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Swing States! Dove si vincono le presidenziali americane

SwingPubblicato su ytali.com dell’8 ottobre 2016

Ogni quattro anni, nelle elezioni presidenziali, gli stati che fanno oscillare il pendolo della vittoria elettorale da una parte o dall’altra, che sono indecisi e contesi fino all’ultimo, sono sempre di meno. Mentre l’elettorato si è diviso, solidificato nelle divisioni e polarizzato sempre di più, è diminuito il numero dei cosiddetti swing states o battleground states – per la ragione molto semplice che è aumentato il numero degli stati sicuri, che si sa già in anticipo quale tipo di maggioranza partitica esprimeranno, con margini di relativa sicurezza che derivano dalla loro storia talvolta semisecolare.

Secondo questa ricerca, riassunta nella tabella qui sotto, nel 1992 i swing states erano 32 (32 su 50 più il District of Columbia, naturalmente) e sono scesi a 14 nel 2012. La tendenza è stata tutta, con regolarità, in discesa. E’ in questi stati che si sono combattute le battaglie presidenziali più accese – che sono state battaglie a tutto campo o meglio a quasi tutto paese negli anni novanta, e invece battaglie sempre più geograficamente limitate, mirate, chirurgiche negli ultimi anni. Secondo alcuni calcoli, sembra che oggi, in vista delle elezioni del prossimo novembre 2016, il numero si sia ridotto ulteriormente a nove.

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Ci sono stati nelle Grandi pianure e nelle Montagne rocciose (più Alaska) che nel passato hanno votato il candidato repubblicano per undici o più elezioni presidenziali di fila, cioè per almeno mezzo secolo, un’eternità. Altrettanto buoni repubblicani sono gli stati del Sud, anche se da minor tempo: da 3 elezioni presidenziali a 10, com’è ormai il caso del popolosissimo Texas e di altri. Ci sono segni di cambiamenti recenti in questi stati, che nella mappa sono colorati in varie gradazioni dal rosa al rosso (il colore del Gop)? Forse qualcosa si sta muovendo in Georgia, che potrebbe diventare competitiva rimettendo in gioco i democratici? Ma in generale sembra di no, quindi si può ipotizzare che saranno repubblicani anche alle prossime elezioni.

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Poi ci sono gli stati che hanno votato il candidato presidenziale democratico negli ultimi 6-10 cicli elettorali, anche qui per un tempo lungo, per oltre un quarto di secolo almeno. Una volta, in questa lista, c’era anche il Sud, ma dagli anni settanta è passato ai repubblicani. Ora l’area democratica, colorata in blu (il colore dei Dems), include il Nord-est atlantico metropolitano con il grande New York State, parte del Midwest e la West Coast (più Hawaii) con il premio più ambito, la gigantesca California. In alcuni di questi stati la cronaca indica un possibile ritorno di competitività dei repubblicani, in New Hampshire o in Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, cioè nella rust belt. Ma non si vede una rivoluzione all’orizzonte, e la storia suggerisce maggioranze democratiche piuttosto sicure.

Restano 9 stati in bilico, stati ballerini che hanno votato in maniera diversa almeno ogni due cicli elettorali, i swing states appunto. Qui si decidono le sorti della contesa. Qui nel passato si sono concentrati gli sforzi delle campagne elettorali dei due candidati principali, qui ci sono state più visite e comizi, più soldi investiti, più ricerca sugli elettori, più organizzazione, più volontari nel porta-a-porta e ai telefoni, più pubblicità televisiva (vedi il caso del 2004). E qui sta succedendo lo stesso adesso. Nella mappa questi stati sono in grigio, e val la pena recitarli tutti indicando il numero dei loro grandi elettori presidenziali, quindi il loro peso politico nell’Electoral College e la gerarchia della loro desiderabilità: Florida (29 grandi elettori) e Ohio (18), North Carolina (15) e Virginia (13), Indiana (11) e Iowa (6), Colorado (9) e Nevada (6) e New Mexico (5).

2004 Presidential Election: George W. Bush (R) vs John Kerry (D) Presidential or vice-presidential candidate visits in final 4 weeks (left) Million dollars spent on TV advertising in final 4 weeks (right)

Campagna per le elezioni presidenziali 2004: George W. Bush (R) vs John Kerry (D)
A sinistra: visite dei candidati presidenziali e vice-presidenziali nelle ultime 4 settimane 
A destra: milioni di dollari spesi in pubblicità televisiva nelle ultime 4 settimane

Infatti, a questo punto, conviene fare un po’ di matematica, contare i grandi elettori presidenziali sui quali, restando così le cose, ciascuno dei due candidati potrebbe fare affidamento. Gli stati storicamente repubblicani danno una somma di 180 grandi elettori, gli stati storicamente democratici di 246, i swing states di 112. Siccome il numero magico, quello che garantisce la maggioranza nell’Electoral College di 538 membri e quindi l’elezione, è 270 – i democratici sono molto più vicini alla meta. La candidata democratica sembra avere in effetti un vantaggio strutturale: a lei mancano 24 voti elettorali, al repubblicano 90. In teoria, per vincere, le basterebbe aggiungere agli stati sicuri una coppia ben scelta di quelli in bilico, o addirittura la fatale Florida da sola: 29 voti ed è fatta.

Così in effetti ha vinto Obama nel 2012: conquistando ben sette dei nove swing states di cui si parla qui, le eccezioni essendo Indiana e North Carolina (vedi la mappa in chiusura). Nel 2008, con più slancio li aveva conquistati tutti e nove. Che Clinton possa ripetere in automatico queste performance il prossimo novembre, è tutto da vedere. Per cercare di vederlo in anticipo, si capisce che gli osservatori guardino ai sondaggi statali in Florida e Ohio, North Carolina e Virginia, Colorado e Indiana, i cui risultati imprevedibili potrebbero decidere la corsa; e che tengano d’occhio Georgia e Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, dove le vecchie sicurezze potrebbero incrinarsi. Si capisce anche che la stessa cosa facciano, lavorando con apprensione, le campagne elettorali di Clinton e Trump.

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Categorie:campagna elettorale, electoral college

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