Dalla Prefazione a Trionfo e declino dei partiti politici negli Stati Uniti, 1860-1930, Otto Editore, 2000, ebook ora in download gratuito qui.
Queste ricerche, iniziate alla fine degli anni ottanta e proseguite per tutti gli anni novanta, si sono incrociate con il precipitare della crisi del sistema politico e partitico italiano, e con i suoi faticosi e non conclusi riassestamenti. E non ne sono uscite indenni. La tentazione di leggere i mutamenti politici negli Stati Uniti di inizio Novecento alla luce di quelli in corso nell’Italia di fine Novecento è stata forte. Così come è stata forte la tentazione di fare il contrario, di usare quelle vicende americane per interpretare queste vicende italiane. A queste tentazioni ho cercato di non resistere, e dal cedimento ho tratto tre convinzioni.
La prima convinzione è che i partiti politici di massa, i politici di partito e il governo di partito siano stati e ancora siano necessari alla democrazia; che la società civile sia il luogo non solo di positive diversità, nuove competenze e vitali creatività, ma anche di gerarchie sociali e di selvagge diseguaglianze; e che la democrazia dei partiti di massa sia lo strumento più efficace inventato fin’ora per mettere un argine alle diseguaglianze e promuovere la partecipazione di tutti.
Il declino della democrazia dei partiti rischia di produrre anche in Italia (come ha scritto il politologo americano Walter Dean Burnham a proposito degli Stati Uniti di inizio secolo e quindi di oggi) un ritorno a uno «stato di natura politico» in cui i differenziali di potere e di coscienza politica in una società stratificata e diseguale si esprimano senza controlli e mediazioni.
Il bilancio dell’esperienza americana nel Novecento, e cioè nella sua «era postpartitica» che sta diventando secondo alcuni «postelettorale», è infatti tutt’altro che tranquillizzante. Con metà della popolazione (quella più povera e meno istruita) fuori del mercato elettorale, con la cittadinanza politica ormai un privilegio della middle class, con una struttura di governo «oligarchica, sotto le sembianze retoriche e processuali della democrazia» (è sempre Burnham a sostenerlo), il paese si è trasformato in una «repubblica di proprietari», come alle origini liberali e predemocratiche della sua storia.
«I limiti della partitocrazia» negli Stati Uniti, ha scritto dieci anni fa lo scienziato politico Mauro Calise, «non li hanno posti singoli cittadini armati di diritti usurpati, ma potenti organizzazioni concorrenti: al posto della partitocrazia non c’è il regno dell’utopia liberale, ma il governo delle corporations».
La seconda convinzione vorrei esprimerla con un linguaggio più distaccato e scholarly, e riguarda la possibilità di interpretare il declino dei partiti americani all’inizio del Novecento come il primo caso storico di crisi dei partiti di massa in una democrazia occidentale. In altri termini, intendo suggerire che i partiti americani mostrarono allora segni di decadimento in alcune delle loro funzioni fondamentali che sono qualitativamente simili a quelli che sono emersi tre quarti di secolo dopo non solo in Italia, ma in tutta Europa. Si tratta di ipotesi di ricerca, non sviluppate sistematicamente ma presenti in questo lavoro, che hanno risvolti interessanti in almeno due direzioni.
Innanzitutto, esse implicano la formulazione di nuove domande storiche sulla natura dei partiti americani ottocenteschi e quindi sulla natura delle loro trasformazioni all’alba del nuovo secolo. Perché non provare a studiare quei partiti (benché una consolidata tradizione intellettuale tenda a scoraggiarlo) proprio come si è fatto con i partiti europei di un’epoca successiva, e cioè come organizzazioni di massa permanenti, programmatiche, con visioni del mondo e idee sulla buona società?
In secondo luogo, queste ipotesi implicano l’uso dell’esperienza degli Stati Uniti come un caso rilevante per la discussione sulla crisi attuale dei partiti in Europa occidentale, e sui suoi possibili sviluppi. A questo uso alludo soltanto. La disgregazione delle organizzazioni politiche di massa, il dissolversi delle culture della partisanship, l’emergere di nuove fratture sociali e di nuovi soggetti politici, l’affermarsi di nuove forme di influenza e di partecipazione (inclusi segnali evidenti di demobilitazione elettorale), le difficoltà delle tradizionali strategie docialiste e socialdemocratiche, il futuro del governo di partito: a me pare che tutte queste questioni siano cruciali nel dibattito politico in corso in molti paesi europei così come lo erano negli Stati Uniti di inizio secolo.
L’analogia storica è un argomento debole, e tuttavia penso che un’analisi attenta del passato americano possa gettare qualche luce sulle questioni sollevate dal presente europeo, e viceversa: le questioni sollevate dal presente europeo possono arricchire la comprensione del passato americano. C’è un salto temporale in questo rapporto fra Europa e Stati Uniti del quale l’analisi comparata dovrebbe rendere conto.
La terza convinzione è connessa a questa seconda, e ancora più generale. Credo che il cosiddetto «eccezionalismo americano», che ha storicamente plasmato il linguaggio della comunicazione transatlantica, abbia intralciato la comprensione della realtà sia degli Stati Uniti che dell’Europa. Credo che negli ultimi tempi, almeno per ciò che riguarda molti aspetti dell’organizzazione della politica, si sia dissolta anche l’apparenza di questa «eccezionale» diversità, e si sia dissolta perché è cambiata in maniera vistosa l’Europa.
Questioni che fino a non molto tempo fa sembravano definire la bizzarra differenza della politica negli Stati Uniti rispetto a quella nei paesi europei hanno perso di senso. Domande come quella classica «Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo?» o la più recente «Perché gli americani non votano?», avendo un’implicita logica comparativa per contrasto (andrebbero completate così: «diversamente da quanto accade in Europa»), logicamente non possono più avere una risposta. «Dov’è il socialismo in Europa?», ci si dovrebbe piuttosto chiedere; oppure, «Perché gli europei (gli italiani) non votano?».
Hanno perso di senso anche le affermazioni più di routine sulla diversità dei partiti americani e sulle caratteristiche peculiari che la lotta politica sembrerebbe assumere negli Stati Uniti: il ruolo dei mass media e in particolare della televisione, la personalizzazione e spettacolarizzazione della politica, l’uso a tappeto dei sondaggi d’opinione, la nascita di instant parties finanziati da singoli individui, la centralità delle «guerre culturali» e dei conflitti etnici e religiosi, l’importanza della razza e del razzismo e dell’esistenza di «due nazioni», nera e bianca, separate, ostili, ineguali. In tutto ciò l’eccezione americana sta diventando la nostra normalità, e dovrebbe cessare di stupirci.
Capo Sant’Andrea (Isola d’Elba), agosto 1999
- Il fallimento del suffragio universale, ovvero il governo dell’ignoranza e del vizio (1870s)
- Il dito sul grilletto dei poliziotti e i cittadini (forse) armati
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