Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Il fallimento del suffragio universale, ovvero il governo dell’ignoranza e del vizio (1870s)

Gli immigrati irlandesi e tedeschi rubano le elezioni, circa 1850.

Gli immigrati irlandesi e tedeschi rubano le elezioni, circa 1850

Per quanto tempo si può sopportare il voto di tutti prima che venga a noia? Dopo circa mezzo secolo di convivenza con il suffragio universale maschile, prima solo bianco e poi esteso anche agli ex schiavi neri, negli anni settanta dell’Ottocento alcuni intellettuali d’élite americani pensarono che era giunto il momento di metterne in discussione i fondamenti (anche se poi i loro pensamenti non ebbero effetti pratici)…  

Con la scomparsa del vecchio Sud schiavista, scrisse nel 1879 il mensile highbrow bostoniano The Atlantic, gli Stati Uniti avevano finalmente conosciuto la «democrazia pura», e proprio allora erano cominciate le lamentele. Ciò che solo trent’anni prima sarebbe stata considerata un’eresia (dubitare della bontà e della saggezza del governo basato sul suffragio universale) era diventato un atteggiamento comune. Un atteggiamento, affermò candidamente il periodico, che è «nato ai vertici della società, fra alcuni degli uomini più intelligenti, pensosi e patriottici, e sta ora diffondendosi verso il basso, lentamente ma senza sosta».

Come mai? Soprattutto a causa del nuovo mix esplosivo fra industrializzazione, urbanizzazione, nuovo proletariato e nuova immigrazione – aveva risposto l’eminente storico liberale Francis Parkman nella più nota filippica antisuffragio di quegli anni, Il fallimento del suffragio universale, pubblicata nel 1878 su un altro organo della intellighenzia pensosa e patriottica di Boston, la North American Review:

Un villaggio del New England dei tempi antichi – vale a dire, di una quarantina d’anni fa  – sarebbe stato ben governato, e saggiamente, dai voti di ogni uomo che l’abitasse; ma ora che il villaggio è cresciuto in una popolosa città, con fabbriche e officine, con distese di casamenti popolari, con migliaia e decine di migliaia di lavoratori inquieti, stranieri per la maggior parte, per i quali il bene pubblico è niente e i loro più meschini interessi sono tutto, che amano il paese per quello che ne possono ottenere, e le cui orecchie sono aperte alle sobillazioni di qualunque volgare agitatore, la situazione è completamente cambiata, e il suffragio universale diventa un beneficio discutibile.

Eppure ci dicono che si tratta di un diritto inalienabile. Supponiamo per un istante che lo sia, per quanto stravagante appaia la supposizione. Anche la comunità ha dei diritti, non solo l’individuo, ed ha pure dei doveri. E’ suo diritto e dovere darsi un buon governo, e, nel momento in cui il voto di una qualsiasi persona o classe di persone diventa un ostacolo a farlo, questa persona o classe perde il diritto a votare; perché, quando i diritti di una parte si scontrano con i diritti del tutto, i primi devono cedere il passo.

In questa situazione, avvertì un altro liberale, Charles Francis Adams (e sì, bostoniano pure lui, discendente di due presidenti degli Stati Uniti), «il suffragio universale può solo voler dire, in parole povere, il governo dell’ignoranza e del vizio: di un proletariato europeo, soprattutto celtico, sulla costa atlantica; di un proletariato africano sulle rive del Golfo; e di una proletariato cinese su quelle del Pacifico».

Categorie:Sistema politico

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