Si fa quel che si può, sperando di indovinare
Recensione per L’Indice, maggio 2016, di Tiziano Bonazzi, Abraham Lincoln. Un dramma americano, Il Mulino, Bologna, 2016.
«Potrei essere più presidenziale di chiunque… di chiunque tranne che del grande Abe Lincoln. Lui era molto presidenziale». Così dice Donald Trump, che potrebbe essere il prossimo candidato repubblicano alla presidenza e magari il prossimo presidente degli Stati Uniti. Anche per lui, dunque, Lincoln è una figura superiore agli altri nel pantheon degli statisti americani, persino, bontà sua, di una spanna superiore al monumento che Trump ha di se stesso. Il grande Abe Lincoln: lo chiama così, con una familiarità che è tipica più dei ricordi scolastici che della frequentazione dei presidential studies. Il grande Abe: che era, per chi lo conosceva bene, l’esatto opposto di ciò che The Donald potrebbe mai essere: «Era privo di ogni disgustoso egoismo e pomposo orgoglio, non si sentiva un aristocratico, né aveva alterigia o vanità. Tutte assieme le sue qualità naturali lo rendevano un gentleman mite, quieto e riservato».
A scrivere queste cose di Lincoln è, nel 1889, uno dei suoi primi biografi, un amico e partner in affari. La citazione è tratta dal suo biografo più recente, Tiziano Bonazzi, che in queste 300 pagine (poche per gli stardard editoriali delle vite lincolniane, spesso multi-volume) offre al pubblico italiano un’opera meditata, moralmente complessa e, va da sé, storiograficamente aggiornata. Bonazzi partecipa infatti alla ricca discussione che si è svolta fra gli storici negli ultimi anni, in occasione del 150° anniversario della Guerra civile e della sua conclusione con l’assassinio dello stesso Lincoln. E usa la sua curiosità intellettuale e sensibilità morale per esplorare le ironie e le trappole delle passioni e dei comportamenti umani, per rendere l’analisi e la narrazione complesse a diversi strati di complessità. Scrive a proposito di una certo impegnativo passaggio: «Occorre procedere per velature come nella pittura cinquecentesca per descriverlo». Ecco, questo fa in tutto il libro.
L’analisi del contesto in cui si forma e opera Lincoln offre a Bonazzi l’opportunità di commentare i grandi nodi della storia degli Stati Uniti, dalle esperienze rivoluzionarie e costituenti fino ai grandi drammi ottocenteschi che sono al centro del libro. La ricostruzione storica è attenta alle specificità nazionali ma è anti-eccezionalista. Le vicende americane sono sempre concettualizzate nel quadro di quella che Bonazzi, qui e altrove nei suoi scritti, chiama «la Grande Europa». La storia del paese è vista come parte integrante di quella dell’Europa e della diaspora europea oltreoceano. La (fondatissima) convinzione è che i principi del 1776 e del 1787, la creazione dello stato, l’espansione territoriale e la nascita della repubblica democratica, la costruzione della nazione unitaria e la secessione, l’emancipazione e l’abolizione della schiavitù, non siano comprensibili se non nell’ambito di processi che investivano l’intero mondo transatlantico.
Trattandosi di una biografia, il filo conduttore del libro è «l’angosciato percorso personale e politico di Lincoln» attraverso tutto questo, la sua capacità di crescere e imparare, soprattutto avvicinandosi alla presidenza e poi da presidente. Bonazzi è al meglio nell’analisi dei testi lincolniani che consentono di penetrare, per quanto sia possibile, nel lavorìo della mente del suo protagonista, nel procedere della sua ricerca personale, nelle ragioni delle sue decisioni. Le sfide centrali che Lincoln affronta sono riassumibili in una prima coppia di parole-chiave, nazione e razza, e nel loro intreccio storico nella schiavitù. La nuova idea di nazione che si affaccia nei suoi discorsi degli anni cinquanta, evocando il linguaggio romantico europeo, si fonde con la ripresa degli ideali illuministi della Dichiarazione di indipendenza e infine matura nel discorso di Gettysburg del 1863. Nel corso del conflitto Lincoln giunge così a chiarire a se stesso, ai concittadini e al mondo che lo scopo della guerra non è più solo il ripristino dell’unità statuale, ma è diventato la ricostituzione di una comunità nazionale organica dedicata al principio che tutti gli uomini sono creati eguali, una nazione senza schiavi.
Sarà questa una nuova era di giustizia? In effetti no, perché la nuova nazione nasce minata dal razzismo. Il razzismo è ovunque nella società bianca, nel sud e nel nord, anche fra gli anti-schiavisti, anche fra gli abolizionisti radicali, anche in Lincoln. Lincoln ha da sempre una personale repulsione per la schiavitù; la ritiene immorale, uno strumento che impedisce all’umanità dei neri di svilupparsi, perché solo il lavoro libero garantisce la piena dignità umana. I neri sono dunque per lui parte dell’umanità, ma ciò non significa che siano uguali ai bianchi. In effetti li considera inferiori: possono essere liberi ma non mescolarsi con i bianchi, possederne gli stessi diritti. Di nuovo è la guerra a spingere Lincoln a cercare in se stesso e a cambiare. Solo con il proclama di emancipazione, con l’arruolamento degli ex schiavi nell’esercito unionista, con le discussioni sull’emendamento costituzionale che abolisce la schiavitù, solo allora comincia a elaborare la nozione che libertà e uguaglianza possano coincidere.
C’è una seconda coppia di parole-chiave che è cruciale per comprendere la mente di Lincoln – e anche un po’ di quella del suo biografo. La coppia è religione e storia. Bonazzi dedica grande attenzione alla religiosità del suo soggetto, un dato importante nei religiosissimi Stati Uniti. Lincoln è fatto a modo suo, è un libero pensatore che legge la Bibbia per i suoi contenuti morali, che non si riconosce in alcuna denominazione, che parla di Dio ma mai di Cristo. Il suo è un dio inconoscibile, che agisce nel mondo per scopi che sono noti a lui ma non agli uomini, che si serve dei contradditori disegni umani per realizzare il proprio. E ciò ha conseguenze politiche, evidenti in particolare nel suo secondo discorso inaugurale, a guerra quasi finita. Lincoln non pretende di conoscere la volontà di Dio, di condurre crociate in suo nome, non è neanche sicuro che la sua parte sia nel giusto, non sente di avere l’autorità di dividere il paese fra giusti e ingiusti, di condannare l’intero popolo meridionale. Il peccato della schiavitù è, all’origine, il peccato di tutti gli americani. E’ per questo che dice: «con rancore verso nessuno, con carità verso tutti».
Se i disegni di dio nel mondo sono inconoscibili, ciò pone a Lincoln il problema del ruolo della agency umana nella storia, del ruolo attivo che gli individui possono avere dentro quegli ignoti disegni. La tensione potrebbe essere paralizzante, portare al fatalismo e all’immobilismo. Non Lincoln che, spinto dalla sua irresistibile spinta a fare, risolve la tensione con l’ironia: si fa quel che si può, sperando di indovinare, di far bene, consapevoli che è impossibile prevedere i risultati delle proprie azioni, che la storia è per noi imprevedibile. Queste laiche convinzioni di Lincoln sembrano congeniali all’approccio storiografico di Bonazzi. Che fra l’altro scrive: oggi che sono cadute le grandi filosofie della storia, la storia può servire «come un esercizio di pietas nei confronti degli esseri umani». Può servire per comprendere l’incertezza e lo smarrimento in cui le persone in carne e ossa che sono i nostri antenati si sono trovate ad agire, e quindi le loro passioni morali e gli scandali, le furie e i peccati. Appunto, lincolnianamente, «con rancore verso nessuno, con carità verso tutti».
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Categorie:Cultura politica
Tag:Abraham Lincoln, guerra civile, nazione, razza, Tiziano Bonazzi