Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

I corpi degli elettori e il body politic repubblicano: trasformazioni nell’Ottocento degli Stati Uniti.

02-county-election-bingham-1852Arnaldo Testi, «A good deal of bodily exertion». I corpi degli elettori e il body politic repubblicano: trasformazioni nell’Ottocento degli Stati Uniti, Ricerche di storia politica, vol. 17, aprile 2015, pp. 3-22. L’articolo completo in pdf è leggibile e scaricabile qui. Qui invece c’è una nutrita gallery di immagini che fanno riferimento al testo.

Alle elezioni presidenziali del 2012 un terzo degli americani ha votato prima dell’Election Day. Secondo un’indagine del U.S. Census Bureau, il 32% degli elettori del paese ha espresso le sue preferenze per posta oppure di persona in seggi speciali dedicati al voto anticipato. I dati sono imprecisi, frutto di stime o di modi diversi di contare nei vari stati, ma le percentuali sono comunque in crescita, soprattutto dopo il giro del nuovo secolo: erano il 20% nel 2004 e appena il 7% nel 1992. Il fenomeno è particolarmente evidente nel Sud, nel Sudovest e nella West Coast. In Tennessee, North Carolina, Georgia, Florida, Colorado, Arizona, New Mexico, Nevada, Oregon and Washington, gli early votes sono stati una abbondante maggioranza dei voti espressi. Il voto per posta (mail-in voting), in particolare, sembra essere molto trendy; è consentito da un numero sempre maggiore di Stati, spesso semplicemente allargando le maglie del voto in assenza, non chiedendo alcuna giustificazione per il suo esercizio («no-excuse» permanent absentee voting). In California le mail ballots sono state quasi 7 milioni, ovvero il 51% del totale. In Oregon si è votato esclusivamente per posta, e da allora si sono aggiunti alla lista gli Stati di Washington e Colorado. Con questi sistemi i cittadini possono preparare la loro scheda quando vogliono, mentre la campagna elettorale è ancora in corso; non c’è più il «giorno delle elezioni», magari c’è il «mese delle elezioni». Possono farlo dove vogliono, da soli o in compagnia di famigliari, amici, compagni di lavoro, compagni di fede politica o religiosa; e poi depositare la scheda presso gli uffici municipali o di contea, presso speciali centri di raccolta, o in una normale buca delle lettere. Secondo quanto riportato dai mass media, ci sono stati voting parties in case private – gruppi di persone che si ritrovano per qualche ora per discutere di candidati e di issues, leggere giornali e programmi, marcare insieme e apertamente le schede elettorali sul tavolo di cucina o in salotto e portarle, insieme, alla più vicina mailbox. E visto che si tratta di party, ci sono state anche chiacchiere, drink e balli. Gli analisti accademici e di partito hanno cominciato a porsi domande sull’impatto che queste novità possono avere sulle strategie elettorali e sul comportamento degli elettori. Ciò che più mi colpisce, tuttavia, è il cambiamento che esse possono produrre nel rapporto del singolo elettore con la performance collettiva, pubblica e sincronica del voto, ovvero, in altre parole, nel rapporto dei corpi dei singoli elettori con il body politic repubblicano.

Il modo tradizionale di votare, un momento solitario e quieto dietro una tenda, in una cabina, sta scomparendo – o così sembra in significative aree del paese. Sta scomparendo il seggio elettorale come «tempio» della moderna democrazia americana, secondo la definizione che ne diede il giudice David Brewer all’inizio del Novecento: uno spazio designato e gestito dall’autorità pubblica dove i cittadini si radunano, in un giorno designato, sotto la bandiera nazionale, per esercitare in segreto il loro diritto individuale al suffragio. Sta scomparendo, lamentano alcuni, il senso di un’impresa condivisa, vissuta in contatto fisico diretto con vicini, conoscenti, estranei di status sociali e opinioni politiche diverse, in fila e in attesa; e, alla fine della fila, in contatto con dei funzionari pubblici in carne e ossa. Sta scomparendo, allo stesso tempo, il senso di tranquilla sicurezza che deriva dall’obbligo della segretezza. Con il mail-in voting l’atto del voto è privatizzato; è sottratto al controllo procedurale della sfera pubblica e alla protezione statuale, e quindi è aperto alle pressioni private, sociali e individuali. Che cosa succede se persone influenti e prepotenti cercano di intimidire elettori più vulnerabili? Se semplicemente, senza pensare alle possibilità offerte al voto di scambio magari criminale, un capo-famiglia cerca di imporsi sui famigliari? Che cosa succede se il capo-ufficio ti invita a un voting party? Sta scomparendo, dicono altri con un sospiro di sollievo, l’inutile perdita di tempo in noiose lunghe file d’attesa, insieme a perfetti sconosciuti. Ci può essere un pregiudizio culturale e di classe in questo atteggiamento, il desiderio di rifuggire da spazi pubblici sgradevoli e popolari per trovare rifugio in ambienti privati più ristretti, accoglienti e conosciuti. In California, chi vota per posta tende a essere più bianco, femminile, istruito, suburbano e politicamente moderato di chi vota nei seggi. E i voting parties, a giudicare dalle notizie di cronaca e dalle fotografie che le accompagnano, sembrano essere incontri di gente middle-class con il medesimo stile di vita. Sta scomparendo, insomma, l’Election Day cerimoniale e con le iniziali maiuscole: il giorno in cui i corpi fisici dei cittadini attivi si riuniscono solennemente, ordinatamente e simultaneamente in una metaforica assemblea per formare il corpo politico della repubblica – e per mettere in scena il privilegio simbolico, il dovere e il piacere di esercitare la sovranità.

Naturalmente «tradizionale» è sempre un aggettivo da prendere con le molle. Gran parte dei rituali associati all’Election Day come li conosciamo sono in effetti piuttosto «moderni». Anzi, secondo alcuni dei loro primi proponenti e sostenitori, così come secondo alcuni studiosi di oggi, sono un portato proprio della modernità e della modernizzazione. Non sono molto vecchi, hanno poco più di cent’anni. Sono stati plasmati da un’ondata di riforme elettorali che ha attraversato gli Stati degli Stati Uniti negli anni Novanta dell’Ottocento. Prima di allora, c’era un mondo diverso, tradizionale secondo una precedente tradizione. Il voto era una performance comunitaria, spesso orale; quando erano richieste schede cartacee, queste erano segnate a casa, nelle taverne, in strada. Le preferenze politiche erano espresse di fronte a chiunque desiderasse vedere e ascoltare, in mezzo a distribuzioni di volantini e discussioni accese. I seggi, soprattutto per le elezioni statali e locali, restavano aperti per giorni, ed erano occasione di festival popolari, di bevute e danze. Le elezioni presidenziali furono limitate a un unico giorno da una legge federale nel 1845, che di fatto istituì quello che Walt Whitman chiamò America’s choosing day («il giorno in cui l’America fa la sua scelta, / Il senso profondo non nell’eletto – l’atto in se stesso ciò che più conta, la scelta quadriennale»). E sì, c’erano anche pressioni sociali e politiche, e intimidazioni e bullismi. Descrivendo simili rituali a Londra, in un articolo del 1852 per la New York Tribune, Karl Marx li paragonò a «baccanali» sfrenati e ubriachi, a «saturnalia nell’antico senso romano della parola»; ed è piuttosto ironico che sentisse il bisogno di rivelarne l’esistenza ai suoi lettori americani, che li conoscevano benissimo. Forse che il nuovo mondo del ventunesimo secolo, un mondo in cui l’atto del voto è privatizzato ma non privato, magari compiuto durante un festoso party, in un arco temporale piuttosto lungo, suggerisce qualche somiglianza con alcuni aspetti di questo vecchio mondo di voto comunitario? Un ritorno post-moderno a un futuro pre-moderno? Un futuro in cui si modifichino ulteriormente i confini, sempre cangianti e sempre porosi, fra sfera privata del singolo cittadino e sfera pubblica? Un futuro in cui, riprendendo il celebre argomento in difesa del voto palese di John Stuart Mill, «per ogni elettore c’è almeno la possibilità che i suoi amici e conoscenti siano in posizione di sapere come vota»? Questa è una pura suggestione – che non intendo sviluppare oltre. Piuttosto, da storico, prendo spunto e ispirazione da essa per rivisitare il ruolo che i corpi degli elettori hanno giocato nell’universo elettorale ottocentesco, e gli importanti eventi che quel ruolo hanno cambiato, creando l’universo novecentesco che oggi sta per svanire.

Nell’Europa di antico regime si supponeva che i monarchi avessero due corpi. Come è stato sottolineato da Ernst Kantorowicz e da altri studiosi, questa finzione giuridica diceva che i re (e le regine) possedessero un body natural fisico, soggetto a errori, passioni, desideri, malattie, invecchiamento e morte, come quello di tutti, e un body politic che era invece infallibile, impassibile e incorruttibile, un’astrazione mistica, una metafora della dignità istituzionale e della continuità dello Stato. Il primo corpo durava il tempo di una vita, il secondo era eterno: «Il re è morto. Viva il re». Quando le rivoluzioni transatlantiche di fine Settecento portarono alla formazione di governi repubblicani, i monarchi furono uccisi, simbolicamente nelle colonie britanniche in Nord America, con la ghigliottina in Francia, e le caratterische dei loro due corpi furono trasferite a un altro sovrano. Come invocò Tom Paine in Common Sense, nel gennaio 1776, che «la corona sia spezzata e distribuita a tutto il popolo, al quale appartiene di diritto». Il royal body politic trasmigrò nel nuovo signore collettivo, il Popolo astratto e con la maiuscola (un sostantivo comunque plurale, almeno in inglese, come nel celebre incipit della Costituzione degli Stati Uniti, «We the People»). Il royal body natural si frammentò in una molteplicità di individui, centinaia di migliaia, poi milioni: i singoli cittadini repubblicani dei cui corpi fisici il popolo astratto era, in ogni dato momento, composto. C’era tuttavia un problema, estetico e politico. Continua a leggere qui.

Categorie:Electoral process, Elezioni

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