Hillary Clinton vuole riformare una parte cruciale della macchina elettorale americana. Con un importante discorso pronunciato all’inizio di giugno a Houston, Texas, ha annunciato che intende mettere mano al sistema di formazione delle liste elettorali, ha parlato di registration reform. Oggi il sistema prevede l’iscrizione individuale volontaria dei singoli cittadini, spesso con percorsi farraginosi, diversi da Stato a Stato, che producono molti errori. Il risultato è che sono registrati meno del 70% degli aventi diritto e ciò contribuisce alla scarsa affluenza alle urne. Come al solito, i percorsi volontari farraginosi scoraggiano soprattutto le persone più povere e meno istruite, e ciò contribuisce alla stratificazione sociale del pubblico votante.
La proposta di Clinton prevede invece la registrazione automatica e universale, per via telematica, di tutti i cittadini nel momento in cui raggiungono la maggiore età. Saranno il governo nazionale, o i governi statali con standard nazionalizzati, a farsi carico dell’impresa e dei suoi controlli di qualità. E questo è il punto per molti versi rivoluzionario, per gli Stati Uniti: la responsabilità dovrà passare dall’individuo all’autorità pubblica. Ciò aggiungerà 50 milioni di nuovi potenziali elettori, e potrebbe essere una iniezione di energia al sistema politico. (Altre riforme proposte da Hillary: fare di Election Day una giornata di festa federale, e disporre per legge in tutti gli Stati almeno 20 giorni di early voting.)
L’iniziativa di Clinton non nasce dal nulla, e questo le da qualche credibilità politica – al di là dell’ovvio electioneering.
Da un certo punto di vista, essa risponde al grido di dolore lanciato da Barack Obama la notte della sua seconda vittoria presidenziale, il 6 novembre 2012. Quando disse “we have to fix that”: dobbiamo aggiustare una macchina elettorale che è vecchia, lenta, inaffidabile, costosa, ingiusta. Per dare consigli su come aggiustarla, Obama nominò una Presidential Commission on Election Administration, codiretta da avvocati Democratici e Repubblicani. Ma le ricette bipartisan sono sempre insipide, e lo furono anche quelle del rapporto finale della Commissione, pubblicato nel gennaio 2014. Dettagliato su molte questioni tecniche, il rapporto taceva sulle questioni più politiche, per esempio su chi dovesse promuovere quelle ricette, se gli Stati o il governo federale.
Da un altro punto di vista, credo più rilevante, Clinton entra con forza, e con una forza tutta partisan, nei conflitti politici sull’esercizio del diritto di voto che si combattono a livello statale. Conflitti e movimenti che sono di almeno due tipi.
I primi sono i più noti. E riguardano le cosiddette Voter ID laws, che per i Democratici sono il nemico. Nel discorso di Hillary, infatti, la riforma delle liste elettorali si è accompagnata alla denuncia delle leggi che, in molti Stati governati dai Repubblicani, hanno introdotto l’obbligo di un documento di identità con una fotografia per accedere ai seggi. Si tratta di provvedimenti visti con favore da tre quarti degli americani, e in apparenza ragionevoli. Ma che in un paese in cui non esistono carte d’identità ufficiali, e facilmente ottenibili, rischiano di restringere l’elettorato attivo. In particolare rischiano di tenere fuori gli elettori, ancora una volta, più poveri e meno educati, a cui i Democratici tengono molto perché sono i loro. I secondi conflitti, per ora meno rumorosi, vanno nella direzione opposta. E riguardano proprio la registration reform. Molti Stati stanno adottando misure per rendere più facili e accurate le procedure: l’iscrizione online, per esempio; l’iscrizione permanente e portatile (da un luogo di residenza all’altro) o fatta il giorno stesso delle elezioni; la pre-iscrizione da studenti al liceo che scatta al compimento dei diciotto anni. Dal marzo di quest’anno, in Oregon chi ha la patente di guida è anche registrato, automaticamente per iniziativa del governo statale – e questa è davvero una novità radicale. A giugno una legge simile è stata approvata in New Jersey ma pende sulla sua testa il veto del governatore, il Repubblicano Chris Christie.
Hillary Clinton ha dunque messo al centro della sua campagna elettorale i temi congiunti della protezione dell’esercizio del diritto di voto e della sua espansione. E cerca di dar loro una dimensione nazionale, uscendo dal patchwork degli Stati. Come è successo per tante riforme, e movimenti di riforma, nella storia del paese.
E’ anche la prima figura politica nazionale mainstream a farlo, da molto tempo.
Certo che è un bel paradosso per un paese che si considera, ed è, la più vecchia democrazia del mondo. Ma tant’è – negli Stati Uniti i conflitti sul voto sembrano non finire mai. Non è in discussione la titolarità formale del diritto. Quella ha seguito i passaggi classici verso il suffragio universale, dai cittadini maschi adulti (compresi a un certo punto gli ex schiavi) alle donne, ai diciottenni. In discussione sono le condizioni di esercizio del diritto acquisito, e l’esempio classico sono le leggi Jim Crow del vecchio Sud segregato: i neri avevano il diritto, ma per praticarlo dovevano superare tali e tanti ostacoli, predisposti allo scopo, che di fatto ne erano esclusi. Quegli ostacoli sono stati abbattuti negli anni 1960s, ma altri continuano a esserci, antichi e nuovi. E la storia continua.
POST SCRIPTUM. Ai conflitti sui voting rights si può aggiungere anche questo: restituire il diritto di voto agli ex carcerati, a coloro che hanno scontato pienamente la pena ma che, per legge, restano privati dei diritti politici. La cosa riguarda circa 4 milioni di persone, appartenenti soprattutto a minoranze razziali impoverite. Ha detto il presidente Obama in un altro importante discorso di questi giorni, tenuto il 14 luglio al congresso nazionale della NAACP: “If folks have served their time, and they’ve re-entered society, they should be able to vote.”
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