Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

“We have to fix that”: aggiustare la macchina elettorale?

All’inizio del discorso della vittoria, la notte del 6 novembre, Obama ha ringraziato gli elettori: chi ha partecipato, chi ha votato per la prima volta, e infine chi “ha aspettato in fila per troppo tempo”. Dopo una pausa, ha aggiunto fra gli applausi: “By the way, we have to fix that”, dobbiamo risolvere questo faccenda, aggiustare la macchina che non funziona. La frase, “We have to fix that”, ha fatto con rapidità il giro del web e di tutti i media. Per poi scomparire con altrettanta rapidità.

L’apparato elettorale negli Stati Uniti è un disastro, un problema che rimerge a ogni tornata elettorale e che resta sempre insoluto. E non si tratta solo del fastidio delle file lunghe e del tempo perso. Un fastidio comunque non banale, visto che si vota in giorno feriale, quando chi lavora ha altro da fare. Può anche accadere che al termine della fila non si possa votare: perché si scopre di non essere iscritti nelle liste giuste o di non avere il giusto documento di identità, perché i seggi restano senza schede, perché le macchine per votare e i computer (dove ci sono) non funzionano bene, perché gli scrutatori sono inesperti e combinano guai.

Una vergogna, si dice, per una nazione e una democrazia moderna. Il fatto è che gli Stati Uniti non sono una democrazia nazionale, bensì federale; e non sono una democrazia moderna, bensì vecchia, molto vecchia, la più vecchia in esistenza (vedi qui). Quindi le procedure e gli stardard elettorali sono regolati dagli Stati, da cinquanta diversi corpi di leggi – che talvolta consentono autonomia alle contee. E c’è una affascinante stratificazione storica di tecnologie elettorali: schede cartacee ottocentesche (nei formati più vari), voting machines di inizio Novecento, punch-cards del secondo dopoguerra, novità informatiche.

Inventare una soluzione nazionale sembra difficile. C’è la questione costituzionale del federalismo e della gelosia degli Stati – la stessa questione che aiuta a preservare il Collegio Elettorale e l’elezione indiretta, Stato per Stato, del presidente. C’è una questione ideologica e culturale, e cioè il timore del big government – lo stesso timore che impedisce la creazione di una cartà d’identità nazionale (o anche statale, se è per questo). C’è infine una questione politica, perché i repubblicani tendono a essere contrari – anche per ragioni e interessi di parte. E le procedure elettorali a livello statale e locale sono molto politicizzate.

Il partito che controlla le assemblee legislative di uno Stato riesce a fare norme che lo favoriscano. Negli ultimi tempi, per esempio, nel decisivo swing State dell’Ohio, sotto governo repubblicano, è stato ridotto il numero di voting machines nei distretti elettorali filo-democratici. E sia Ohio che Florida hanno ridotto il numero di giorni in cui è consentito il voto anticipato. In entrambi i casi, il risultato è stato un aumento della congestione ai seggi, e una maggiore difficoltà a votare. (In questi e altri Stati, con questi e altri marchingegni, si è parlato di una guerra dei repubblicani agli elettori più poveri, meno istruiti, tendenzialmente democratici, leggi qui.)

La vicenda della Election Assistance Commission è esemplare. E’ una commissione bipartisan creata nel 2002, dopo i pasticci presidenziali del 2000. Ha il compito – non, ci mancherebbe altro, di istituire alcunché, bensì di assistere e consigliare gli Stati affinché adottino le pratiche migliori di voto, il più possibile omegenee. Ha distribuito anche soldi per l’acquisto di sistemi efficienti. Ora i soldi sono finiti, e i posti di commissario (due repubblicani e due democratici) sono vacanti: le loro nomine sono state bloccate. E’ diventata una commissione zombie. E i repubblicani in Congresso stanno cercando di ucciderla del tutto.

Si può anche guardare al bicchiere mezzo pieno, volendo. Forse che le lunghe e animate file ai seggi non ricordano lo stato nascente di una democrazia, l’eccitazione del primo voto? E l’esercizio del suffragio, non torna forse a essere una impresa “strenua” che richiede determinazione, dedizione civica, orgoglio di cittadinanza? Perché abolire tutto ciò? Insieme alla elezione del presidente Stato per Stato, con i risultati che cambiano ora dopo ora, seguendo i diversi orari di chiusura dei seggi nonché i quattro fusi orari del continente, come in un emozionante bingo – non è tutto parte di un grande spettacolo?

Post Scriptum. Vedi  l’editoriale del NYT del 20 Novembre 2012, A Broken Election System.

Categorie:Barack Obama, Electoral process, Elezioni

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