Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

La Corte suprema? Nove avvocati non eletti

150626_JURIS_Scalia-01.jpg.CROP.original-originalIl giudice Antonin Scalia considera la Corte suprema, di cui è membro, un corpo elitario e separato dal resto della società: non ne ha il polso, se ne distingue per formazione, sensibilità, stile di vita. Fa anche l’analisi sociologica del suo ristretto personale, nove persone lui incluso, per dimostrarlo. Tutto ciò gli serve per sostenere che molte delle questioni di cui si occupa, la Corte suprema, farebbe bene a lasciarle al Popolo, alle valutazioni e decisioni democratiche del Popolo – come, secondo lui, vorrebbe Costituzione e vorrebbe buon senso.

Ciò è coerente con la tradizione conservatrice che sottolinea come le corti non debbano travalicare certi limiti nell’interpretare la legge ordinaria e la Costituzione. Devono piuttosto darne una interpretazione stretta, aderente alla lettera. Devono dire quale è la legge, non fare la legge. Fare la legge è compito e prerogativa del potere legislativo, cioè dei legislatori che rappresentano appunto il Popolo. Con Scalia, tuttavia, sembra emergere una tradizione che va oltre ogni strict constructionism, ogni judicial restraint nell’interpretazione giudiziaria. E che giunge ai limiti del judicial self-loathing, del disgusto e del disprezzo di sé da parte degli stessi giudici.

Che arriveranno a chiedersi, “ma chi credete di essere?” o meglio, “ma chi crediamo che siamo?”

La domanda è vecchia come il mondo americano, naturalmente. Due secoli fa se la poneva, più o meno la stessa, Thomas Jefferson. Da presidente, il Democratico Jefferson aveva subito l’onta di una Corte suprema Federalista che aveva dichiarato, o “inventato”, la propria autorità a passare giudizi di costituzionalità sulle leggi ordinarie (il famoso caso Marbury v. Madison del 1803). E aveva commentato che ciò avrebbe reso il potere giudiziario un potere pericoloso per la repubblica: il potere di pochi uomini in carica a vita e senza alcun controllo elettorale, “il dispotismo di una oligarchia”.

Jefferson criticava da fuori l’augusto consesso. Il giudice Scalia lo fa da dentro, almeno quando succedono cose che trova sgradevoli. Lo ha fatto, per esempio, nella sorprendente dissenting opinion che ha scritto sul caso Obergefell v. Hodges, quello che l’altro giorno, il 26 giugno, ha dato via libera al same-sex marriage con una sentenza e una maggioranza che a lui non sono piaciute affatto.

[La sentenza di maggioranza] è nuda pretesa giudiziaria a un potere legislativo, anzi in verità super-legislativo; una pretesa fondamentalmente in conflitto con il nostro sistema di governo. Ammenoché non siano limitati da una proibizione costituzionale voluta dal Popolo, gli Stati sono liberi di adottare qualunque legge piaccia loro, persino leggi che offendono il “giudizio ragionato” degli stimati giudici. Un sistema di governo che subordina il Popolo a un comitato di nove avvocati non eletti non merita il nome di democrazia.

I giudici sono scelti precisamente per le loro qualità di avvocati; se riflettano o meno le idee politiche di una particolare constituency non è (o non dovrebbe essere) rilevante. Non è sorprendente, quindi, che il potere giudiziario federale non sia affatto uno spaccato dell’America. Prendete per esempio questa Corte, che consiste solo di nove uomini e donne, tutti avvocati di successo che hanno studiato a Harvard o Yale. Quattro dei nove sono nati a New York City. Otto sono cresciuti negli Stati della costa orientale o della West Coast. Solo uno viene dal grande paese che sta nel mezzo. Non c’è un solo South-westerner e neppure, a dire la verità, un genuino Westerner (la California non conta). Non c’è un solo Evangelico (un gruppo che comprende un quarto degli americani), o persino un solo Protestante di qualunque denominazione.

Il carattere assai poco rappresentativo del corpo che vota sull’odierna questione sociale sarebbe irrilevante se essi si comportassero da giudici, affrontando la questione legale se il popolo americano abbia mai ratificato un provvedimento costituzionale che abbia abolito o meno la tradizionale definizione di matrimonio. Ma naturalmente i giudici nella maggioranza odierna non votano su questa base; lo dicono loro stessi che no. E consentire che la questione politica del same-sex marriage sia considerata e risolta da un comitato ristretto, patrizio, altamente non rappresentativo, di nove persone, significa violare un principio ancora più fondamentale di no taxation without representation: e cioè no social transformation without representation.

Il tema è ritornato pochi giorni dopo, il 29 giugno, nella sentenza Glossip v. Gross in cui si discute di pena di morte. Questa volta Scalia è fra i vincitori e la sua è dunque una concurring opinion a quella di maggioranza scritta dal giudice Alito. Ma lo slancio critico è lo stesso, l’obiettivo lo stesso, e lo stesso è il casus belli: la posizione di un giudice liberal, il giudice Bryer, contraria alla pena di morte, che è minoritaria nella Corte ma che comunque a lui non piace affatto.

E infine, il giudice Bryer dice che non gli “sembra probabile” che la pena di morte abbia un effetto deterrente “significativo”. … Sembra invece molto probabile a me, e ci sono studi statistici che lo dimostrano. … [Ma comunque] noi giudici federali viviamo in un mondo separato da quello della vasta maggioranza degli americani. Dopo il lavoro, ci ritiriamo nelle nostre case in un suburb tranquillo o in un condominio urbano con le guardie all’ingresso. Non dobbiamo confrontarci con la minaccia della violenza che è sempre presente nella vita quotidiana di molti americani. L’idea che l’effetto deterrente incrementale, per quanto piccolo, della pena capitale non sembri “significativo” riflette, mi sembra, una noncuranza snob, alla che-mangino-brioche, dei bisogni degli altri. Che sia il Popolo a decidere quanta deterrenza incrementale sia appropriata.

Categorie:Potere giudiziario

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