I comunisti, negli anni 1950s, come gli alieni nel film Invasion of the Body Snatchers, potevano nascondersi ovunque. Una volta i commies erano tipi barbuti e rozzi, sempre con le bombe nella borsa. Facilmente riconoscibili. Ora non più. Erano persone normali, provenivano dagli ambienti più diversi, da ogni mestiere e professione. Inoltre il partito comunista cercava di mimetizzarsi, di andare underground, per infiltrarsi meglio. Come identificarli? Per aiutare i suoi agenti dell’intelligence a farlo, un bollettino militare pubblicò un articolo con alcune istruzioni di base, How to Spot a Communist. L’articolo divenne anche un opuscolo e fu riprodotto fuori dell’ambiente militare. Era il 1955, al tramonto dell’epoca più virulenta del maccartismo, e l’iniziativa non fece fare bella figura. Ebbe, sembra, vita breve.
Il pamphlet fu seppellito nel ridicolo da un editoriale del New York Times del 14 giugno 1955: se gli agenti del nostro spionaggio sono così naif da prenderlo sul serio, «non possiamo che temere per la sicurezza delle istallazioni che sono chiamati a proteggere». Il quotidiano pubblicò anche una lettera di protesta del leader socialista Norman Thomas. L’American Civil Liberties Union lo denunciò come «un serio attacco» alla libertà di pensiero e di espressione, come un invito ai cittadini a spiarsi fra loro. E alla fine, un mese dopo, l’articolo fu ripudiato dal Dipartimento della difesa e la sua riproduzione vietata. Dovrei usare il condizionale, su questi sviluppi, perché non ho altre notizie che quelle che leggo sul Times. Non sono neanche riuscito a trovare il testo completo, solo una selezione di due pagine, qui.
La lettura è comunque istruttiva, anche per l’oggi. Sospettate che qualcuno sia, sotto sotto, un comunista? Tranquilli, si può appurare, con un po’ di analisi del linguaggio. Perché quelli lì scrivono e parlano tutti allo stesso modo, non possono farne a meno. E vanno sul difficile. Preferiscono le «frasi lunghe». E usano un «vocabolario caratteristico», impervio anch’esso. In un articolo o in una conversazione tenete d’occhio queste espressioni (alcune le lascio in inglese): «integrative thinking, avanguardia, compagno, … sciovinismo, book-burning, fede sincretistica, nazionalismo borghese, gingoismo, colonialismo, hooliganismo, classe dominante, progressista, demagogia, dialettico, caccia alle streghe, reazionario, sfruttamento, oppressione, materialista».
Inoltre i comunisti o i loro simpatizzanti amano discutere di alcuni argomenti che sono parte del loro «arsenale», un prodotto del loro ambiente. Questi argomenti includono: «il “maccartismo”, la violazione dei diritti civili, la discriminazione razziale o religiosa, le leggi sull’immigrazione, le leggi anti-sovversione, qualunque legge riguardante i sindacati, il bilancio militare, la “pace”». Già, c’è anche la «brutalità della polizia». Il compito è troppo facile se i vostri interlocutori difendono ciecamente gli ideali marxisti, o se lodano le istituzioni dei paesi comunisti. Ma attenzione, anche essere pitignosi, «approfittare di ogni evento, anche i più insignificanti di questo paese, per criticare» – può essere sospetto. Avete presente la Katie Morosky (Barbra Streisand) del film The Way We Were? Ecco, lei.
E infine, come dimenticare che i comunisti si dedicano da sempre a «hobby come la folk music e la danza popolare»?
Ora, tutto ciò non porta a conclusioni sicure al cento per cento. E’ solo un campanello d’allarme. Non si può, solo per questo, accusare qualcuno di sovversione. Bisogna in effetti saper distinguere «la persona che si limita a dissentire secondo la vecchia buona tradizione americana e quella che critica e condanna allo scopo di abolirla, quella tradizione». E soprattutto bisogna usare un approccio che sia «distaccato e completamente libero da pregiudizi». Insomma, un «approccio fattuale» – come quello fornito dalle istruzioni per l’uso di cui sopra.
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