Nell’Ottocento le campagne politiche americane, e il giorno stesso delle elezioni, Election Day, erano un trionfo di fisicità – di corpi ammassati nelle piazze, di comizi e parate, di feste, balli, picnic, sbronze, di voti espressi oralmente di fronte a tutti. C’era anche qualche rissa, e qualche compravendita di voti. Soprattutto all’inizio del secolo, i rituali elettorali avevano alcune caratteristiche carnevalesche, le medesime che Karl Marx descrive con disgusto a proposito delle contemporanee elezioni inglesi: “baccanali di sfrenata degradazione e ubriacature”, “saturnalia nell’antico senso romano della parola”.
Poi acquistarono un ordine maggiore, dovuto soprattutto alla presenza massiccia e organizzata dei partiti di massa. Ma rimase la festa collettiva di strada, la rumorosa partecipazione popolare. Con il Novecento questa dimensione fisica, corporea e festiva della politica elettorale si è attenuata, è in gran parte svanita, lasciando un vago ricordo e magari qualche nostalgia (soprattutto in alcuni storici, che ormai sono gli unici a saperlo). La nostalgia di quando sembrava che i cittadini elettori fossero parte integrante dello spettacolo (e pazienza se erano solo maschi, e alcuni un po’ gaglioffi).
Un testimone oculare di quel mondo perduto è il giornalista inglese George Steevens, che viene negli Stati Uniti per le elezioni presidenziali del 1896, per molti versi ancora pienamente ottocentesche. E’ un fellow di Oxford e scrive per il Daily Mail di Londra (e poi ne fa un libro, The Land of the Dollar, 1897). Come parecchi intellettuali del suo tempo, osserva e racconta la democrazia elettorale con il pregiudizio dell’esploratore vittoriano che studia i costumi dei nativi, nel suo caso con un tocco in più: quello dell’europeo che studia gli esotici americani. Non se l’aspetta – ma è sedotto dal fascino fisico e sensuale delle grandi parate politiche, delle grandi manifestazioni popolari.
“Centomila uomini! Più di tredici miglia di processione! La mente era stordita e frastornata dalla sua vastità. L’occhio era accecato dai colori, l’orecchio assordato dalla musica, la testa confusa dal tentativo di mettere a fuoco il tutto. C’era più colore e più rumore e più uomini di quanto si potesse concepire nell’intero mondo – un mondo di bandiere sfavillanti e ottoni e cavalli, e uomini, uomini, uomini in movimento, finché uno non si arrendeva e si lasciava trascinare e conquistare e assorbire, annichilito in questo titanico self collettivo”.
“Anche l’immaginazione più indolente non può fare a meno di cogliere la forza della grande macchina che gli chiede di diventarne parte.” – “In questo paese hanno scoperto gli effetti dello spettacolare e dell’auricolare, e li hanno applicati, com’è loro caratteristica, su vasta scala. Puoi essere insensibile ai ragionamenti; puoi ignorare i tuoi interessi; puoi dimenticarti degli interessi del paese; puoi persino rifiutare una bustarella. Ma non puoi fare a meno di vedere e ascoltare ed essere colpito e disarmato da un così imperioso e magistrale appello ai sensi del corpo.”
Solo davanti ai seggi c’è un po’ di calma, e questo è già un segno che i tempi stanno cambiando. Sono arrivati il voto segreto e la cabina elettorale protetta, che rendono il voto un atto privato. Gli uomini sono in fila, attendono di entrare in quei “tabernacoli” dove “esercitano il sacramento della cittadinanza”. E lì, per pochi momenti, i loro corpi si separano dalla massa e diventano individui. L’effetto riguarda uomini di tutti i tipi, con sorpresa del gentleman inglese. “Persino i manovali italiani e gli ambulanti yiddish per un giorno mettono sù carattere, e si portano come cittadini degni della loro cittadinanza”. Eh sì, sta arrivando il Novecento.
Immagini: New York Public Library Digital Gallery
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- L’illusione del cittadino informato: Walter Lippmann, 1922
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